Il suicidio, il servo infame del male di vivere

RIFLESSIONE A VOCE ALTA SU TROPPE MORTI CHE NON SONO SOLO STATISTICA

di Vanessa Marini

8035594395_23a4148341_qSpesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l’incartocciarsi della foglia riarsa.

era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”

(Eugenio Montale)

1 febbraio 2014. Firenze. Commerciante di 36 anni si suicida impiccandosi nella sua abitazione. Non viene escluso dagli investigatori, in base ai primi elementi raccolti, che ad indurre l’uomo al suicidio possono essere state anche le difficoltà finanziarie che stava affrontando.

10 febbraio 2014. Fontanaviva (Padova). Una ragazzina di 14 anni si lancia dal tetto dell’ex Hotel Palace di Cittadella perchè presa di mira da un social network.

8 aprile 2014. Frisanco (Pordenone) un imprenditore di 45 anni è stato trovato morto nel garage della sua abitazione. L’uomo si sarebbe tolto la vita con il gas di scarico della sua moto. Una settimana dopo che si era tolta la vita la donna che lo avrebbe lasciato.

15 maggio 2014. Ancona. Un uomo di 37 anni si lancia sotto un treno volontariamente. Dalla dinamica dell’incidente viene confermata l’ipotesi del suicidio.

Sembra un tragico bollettino di guerra e invece è solo la realtà.

Sono solo tre dei tanti, dei troppi, episodi di suicidio che negli ultimi anni riempono le cronache della nostra città, del nostro Paese, del mondo.

Non è mia intenzione esprime giudizi su ciò che sta accadendo. Ogni valutazione rischia di essere superficiale, oltre che insensata, e ferire la sensibilità tanto di chi non c’è più quanto di chi è rimasto.

Ma un dato emerge con lapidaria certezza: il tasso di suicidi negli ultimi anni è aumentato. Così dicono i dati riportati dagli enti di analisi. Solo in Italia si registra almeno un suicidio ogni 2 giorni e mezzo.

Una riflessione è dunque doverosa.

Da una ricerca breve e, ahimè, “leggera” rispetto a quella che è l’estensione e la pesante frequenza con cui le persone oggi decidono di togliersi la vita, mi trovo a pensare a questo “fenomeno” quasi come fosse esso stesso una “persona”; una persona con proprie “abitudini”, con i propri “tratti somatici”.

Scopro che questo essere sta in 6/7 casi per 100.000 abitanti per anno e che questa percentuale è più o meno la stessa in tutto il mondo. Scopro che le fasce di età che predilige sono l’adolescenza e l’età avanzata (più o meno dopo i 60 anni). Scopro che interessa più gli uomini che le donne, più o meno con un rapporto di 3 a 1, e che questa percentuale non varia anzi segna un funesto elemento di uguaglianza tra tutte le culture e tra tutte le classi sociali.

Scopro anche che questo essere ha un suo rituale (il gettarsi dalla finestra, sotto un treno, in un fiume o l’impiccagione), ma non disdegna mezzi cruenti come le armi da fuoco o da taglio. Talvolta è l’epilogo di un gesto impulsivo ma con maggior frequenza è frutto di un preciso programma.

Scopro che ha “giorni preferiti” (quelli festivi), “orari preferiti” (la mattina), una “stagione preferita” (autunno-inverno) e addirittura una “festa preferita” (il 15 di agosto).

L’unica cosa che, ad oggi, resta difficile capire è da dove viene.

Gli adolescenti si suicidano per derisione, discriminazione, isolamento alle loro inclinazioni sessuali, al colore della pelle, alla poca o troppa prestanza fisica.

Per gli adulti l’atto volontario di togliersi la vita è legato allo stato di malessere personale.

Malessere che può derivare dal lavoro e dalle difficoltà economiche. Muoiono così imprenditori, per mancanza di denaro o situazione debitoria insanabile, e muoiono disoccupati per la perdita del posto di lavoro. Incidono sicuramente i debiti verso l’erario.

Malessere che, anche negli adulti, può venire da questioni di cuore e da incapacità di gestire i sentimenti. Ci si toglie la vita per una storia finita, per una diversa inclinazione sessuale.

Malessere che spesso è legata alla presenza di una patologia o di una malattia che non si riesce a gestire.

Al di là dei casi estremi quali l’eutanasia o il suicidio come esito di malattie psichiatriche quali la schizofrenia o lo sdoppiamento di personalità, ciò che mi lasciano dentro gli episodi di suicidio è il senso di solitudine. Solitudine dagli altri, ma ancor prima solitudine da se stessi.

A rischio di essere riduttiva e senza alcuna pretesa di fornire verità assolute, le situazioni che di volta in volta vengono individuate come la ragione scatenante si riconducono ad una situazione che la persona che si autodistrugge avverte come una debolezza, come fallimento, come qualcosa da nascondere, come qualcosa di cui vergognarsi e di cui non può parlare agli altri e nemmeno riconoscere a se stessi.

E così il suicidio o anche solo il tentativo di togliersi la vita assume la sconcertante doppia natura di gesto dimostrativo e di ribellione, ma al contempo di relazione con gli altri e con se stesso. È espressione e mezzo catartico di sofferenza ma anche bisogno di punirsi per qualcosa che si avverte con se stessi come una colpa e nello stesso tempo potente mezzo di comunicazione ed indelebile richiesta di aiuto nei confronti degli altri. Aiuto che non si riesce a chiedere prima.

Il vero problema di fondo dunque non è la crisi economica piuttosto che la malattia o il problema sentimentale, il vero problema di fondo è l’incapacità di vivere le proprie debolezze e sbagli come qualcosa che può essere comunicato a sé e agli altri, dunque accettato, dunque affrontato.

Nonostante lo sforzo di molti, il problema resta allora l’incomunicabilità e l’unico rimedio il silenzio. Quello interiore prima, quello eterno come estrema ratio.

Nel silenzio non c’è debolezza, non c’è il giudizio universale degli altri né ancor prima quello proprio, non c’è esclusione.

Alla fine di questa considerazione, parole che parlano di rispetto della diversità, o meglio della sensibilità altrui, o parole che parlano del fatto che nessuno è mai veramente solo, del fatto che tutti possono trovare amore, anche sotto forma di amicizia di una persona o di un animale, potrebbero allo stesso modo andare bene e allo stesso modo sarebbero opinabili o discutibili.

Dunque preferisco lasciare parole che assomigliano di più a ciò che penso.

Parole che descrivono ciò che tutti noi non dovremmo mai perdere e, soprattutto, l’unica persona che ci dovrebbe sempre amare e tutelare. La speranza e noi stessi.

Non perdere mai la speranza nell’inseguire i tuoi sogni,

perché c’e’ un’unica creatura che può fermarti,

e quella creatura sei tu.

Non smettere mai di credere in te stessa e nei tuoi sogni

Non smettere mai di cercare,

tu realizzerai sempre ogni cosa che ti metterai in testa.

L’unico responsabile del tuo successo

o del tuo fallimento sei tu, ricordalo.

Ogni pensiero o idea pronunciata a voce alta viaggia nel vento,

la voce corre nell’aria, cambiandone il corso.

Se sei brava da udire abbastanza,

tu potrai ascoltare l’eco di saggezze

e conoscenze lontane nel tempo e nello spazio.

Tutto il sapere del mondo e’ a disposizione di chiunque sia disposto

a credere e a voler ascoltare.

La libertà e’ una scelta che soltanto tu puoi fare:

tu sei legata soltanto dalle catene delle tue paure.

Non e’ mai una vera tragedia provare e fallire,

perché prima o poi si impara, la tragedia e’

non provarci nemmeno per paura di fallire.

Mentre noi possiamo orientare

le nostre mosse verso un obiettivo comune,

ognuno di noi deve trovare la sua strada,

perché le risposte non possono essere trovate

seguendo le orme di un’altra persona.

Se tu puoi compiere grandi cose quando gli altri credono in te,

immagina ciò che puoi raggiungere

quando sei tu a credere in te stessa”

(Peter o’ Connor)

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