Emergenza carceraria: i suicidi negli istituti penitenziari e l’identikit del detenuto suicida

NEL 2014 IL 40% DELLE MORTI IN CARCERE È RAPPRESENTATO DA SUICIDI, IN NETTO AUMENTO

di Barbara Fuggiano

​​Image2661Il presidente della Società italiana di Psichiatria ha definito “drammatica” la situazione delle carceri italiana, nelle quali più del 15% dei detenuti soffre di disturbi psichici gravi, tra i quali: depressione, disturbi di personalità e, stando ad alcuni studi più mirati, sindromi reattive alla carcerazione. Si tratta della patologia più diffusa nel sistema carcerario, subito dopo l’uso di sostanze stupefacenti.

Questi disturbi – è quasi superfluo sottolinearlo – non sono che l’anticamera di gesti estremi, dagli atti di autolesionismo ai suicidi veri e propri.

Dal 1990 al 2014 i detenuti morti per suicidio sono circa 1.400. Ogni anno si registra in media 1 suicidio ogni 1000 detenuti e 1 suicidio ogni 20.000 persone libere. Già solo sulla base di questo dato è evidente che il fenomeno risulta presentarsi nell’ambiente penitenziario 19-20 volte più di quanto accada fuori dallo stesso; pertanto, non si può credere che non ci sia una qualche correlazione causa-effetto tra le condizioni di vita detentiva e l’atto estremo.

A rammentare la gravità del problema, che in Italia ha assunto importanza nazionale a partire salla metà degli anni Ottanta, accorrono le recenti morti di tre detenuti in poco più di un mese a Como, il suicidio di un 34enne lo scorso sabato nel carcere di Solliciano e, non ultimo, quello di un altro condannato a Fossombrone circa due settimane fa.

Gli studi “sociologici” sul “comportamento suicidario” – tipici dei Paesi anglosassoni – hanno potuto affermare con certezza che il tasso di suicidio è positivamente legato ai vari livelli di disgregazione sociale (collettivo, familiare, religioso, politico), cosicché la mancanza di un legame, forte o debole che sia, con una comunità comporta la solitudine del soggetto che, è stato dimostrato, svilupperà più facilmente idee di autodistruzione; a conferma di questo, basta pensare all’altissima percentuale di suicii tra gli anziani o gli adolescenti.

L’ambiente carcerario italiano, per come è strutturato, si presta purtroppo perfettamente all’insorgere di queste condizioni, poiché non solo il soggetto è privato della libertà di autodeterminazione (dalla quale discende anche la possibilità di scegliere con chi trascorrere il proprio tempo) ma si trova persino costretto ad accettare la presenza di individui che altri, al posto suo, gli impongono; e se la società – carceraria, in questo caso – diventa solo un insieme sconnesso di persone, il cui unico elemento socializzante viene a essere la contiguità fisica, le persone si sentono sole, isolate e spesso inutili.

In un contesto simile, in una massa numerosissima di individui soli, non c’è da stupirsi che le percentuali di suicidio risultino sovrarappresentate. Se è vero che la reclusione non può generare un quadro psichico, ma al massimo fungere da fattore slatentizzante una pregressa condizione di precario equilibrio mentale, è anche vero che il carcere stesso è patogeno ed in grado di produrre quadri reattivi alla carcerazione, come la realtà empirica ha dimostrato (mi riferisco, in primis, alla sindrome di Ganser).

Premettendo che ogni suicidio è a sé, poiché contiene una molteplicità di elementi non generalizzabili (in pratica, tanti quante sono le sfaccettature della personalità e della mente umana), alcuni studi specifici – a livello internazionale, dato che è scarnissima la letteratura nostrana sull’argomento – hanno individuato le variabili e i fattori che, più di altri, possono spingere il detenuto a scegliere di togliersi la vita.

Tuttavia, si deve sottolineare che chi, come me, si approccia al fenomeno incontra numerosi ostacoli difficilmente superabili. Innanzitutto, spesso i dati non sono certi, perché l’amministrazione penitenziaria tende a etichettare la morte di un ristretto (c.d. “evento critico”) come suicidio solo in via eccezionale, qualora una classificazione diversa non sia possibile. Basti pensare che le modalità più diffuse tra coloro che intendono togliersi la vita sono l’impiccagione (con le lenzuola o con i cavi dell’antenna), l’asfissia (con sacchetti di plastica stretti intorno alla testa) e l’inalazione del gas contenuto nelle bombolette del fornelletto da campeggio – che è ammesso tenere in cella – ma l’amministrazione penitenziaria classifica questi ultimi casi come “morti per overdose”, dal momento che i detenuti tendono ad inalare il gas come surrogato dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Il rischio è di etichettare come “overdose” anche la morte di un detenuto che non era tossicodipendente. Lo svenamento, invece, costituisce l’atto di autolesionismo più diffuso, ma raramente arriva a produrre l’evento letale, dato che i detenuti sono (dovrebbero essere) sempre monitorati dal personale penitenziario.

Le variabili che assumono un rilievo particolare nell’analisi dei dati sul fenomeno suicidario in ambito carcerario sono essenzialmente tre, come l’autorevole Luigi Manconi insegna.

La prima è rappresentata dal periodo di detenzione antecedente il gesto. L’esperienza empirica, infatti, dimostra che in carcere ci si toglie la vita con maggiore frequenza nei primi giorni di detenzione, nelle prime settimane e, in generale, nel corso del primo anno. La stabilità delle percentuali di suicidio tra i neo-detenuti fa emergere in tutta la sua preoccupante dimensione il fallimento del Servizio di accoglienza per i detenuti nuovi giunti – inaugurato nel 1987 come Servizio Nuovi Giunti – che avrebbe dovuto ridurre lo schock dovuto all’impatto con l’istituzione e la qualità e le abitudini della vita penitenziaria, ammirevole obiettivo che, per una serie di carenze sistemiche e strutturali (che richiederebbero una trattazione a parte), si è ben lontani dal raggiungere.

La seconda variabile rilevante in questo “identikit” del detenuto incline al suicidio è rappresentata dall’età. Nel complesso della popolazione italiana la percentuale più alta di suicidi (oltre il 50-60%) si registra tra persone con più di 45-50 anni e le spiegazioni più logiche sono date dal fatto che, in concomitanza con altri fattori destabilizzanti, questi soggetti hanno una prospettiva di vita migliore molto più ridotta; altrettanto si potrebbe pensare che avvenga in ambiente penitenziario, posto che un soggetto giovane ha più anni davanti a sé per elaborare la sofferenza data dalla carcerazione e programmare un futuro diverso. Ma non è così. La percentuale più consistente di suicidi si registra proprio tra i detenuti più giovani, tra i 18 e i 40 anni, e non perché la popolazione carceraria sia più giovane rispetto all’esterno. Le spiegazioni più attendibili imputano questo dato al fatto che questi soggetti riescono più difficilmente a superare lo shock della carcerazione, ad adattarsi al nuovo “mondo”, poiché immaturi, vulnerabili, provenienti solitamente da una carriera criminale di scarsa rilevanza e spovvisti di quel “codice di comportamento che li ponga al riparo dalle insidie, dalle incognite e dai traumi della vita reclusa” (Andrea Boraschi – Luigi Manconi).

L’ultima rilevante variabile attiene alla posizione giuridica dei detenuti. Anche in questo caso, i dati epirici smentiscono totalmente quello che sarebbe il ragionamento logico. Non è, infatti, tra i condannati definitivi ad una pena medio-lunga, implicante la rinuncia alla speranza di un futuro migliore, che il fenomeno si sviluppa maggiormente; le percentuali più alte si registrano, piuttosto, tra gli imputati, cioè tra i soggetti in attesa di giudizio (in patricolare, del primo grado), sui quali evidentemente pesa l’impatto con una realtà fortemente distora, ristretta, deviante, patogena e criminogena quale è quella carceraria.

Potremmo aggiungere un’altra variabile, suggerita anche dalla CEDU, nella sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia. La Corte, richiamando il Settimo Rapporto generale del CPT, ricorda che un carcere sovraffollato porta con sé la violazione della dignità del detenuto nel momento in cui implica uno spazio ristretto e non igienico concesso a ciascuno, la costante mancanza di privacy anche durante lo svolgimento di funzioni basilari (come l’uso del gabinetto), una riduzione delle ore di attività fuori cella per la mancanza di personale e di spazio disponibile, l’insufficienza di servizi di assistenza sanitaria e un aumento di episodi di violenza tra detenuti o tra i detenuti e il personale.

Posto che “sovraffollamento” è, quindi, sinonimo di inefficienza e insufficienza sistematica, organica ed economica, la permanenza in un carcere sovraffollato può costituire un motivo non solo di disagio in grado di colpire i soggetti più deboli perché piscologicamente, socialmente e/o culturalmente “diversi” (immigrati, tossicodipendenti, gay, trans) e meno garantiti, ma anche di aumento della violenza intramuraria sia verso terzi che verso se stessi (autolesionismo, tentato suicidio, suicidio compiuto).

Quindi, i soggetti più a rischio (e dai quali partire in un’ottica di riforma) sono i neo-detenuti più giovani, magari in attesa di giudizio, delle carceri sovraffollate.

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