Briciole di grandezza: la Pietà di Michelangelo.

“In ogni cosa ho voglia di arrivare sino alla sostanza. Nel lavoro, cercando la mia strada, nel tumulto del cuore, sino all’essenza dei giorni passati, sino alla loro ragione, sino ai motivi, sino alle radici, sino al midollo.” (Boris Pasternak).

Forse con queste stesse parole Pasternak avrebbe descritto il modo di scolpire originale e di per sé immenso di Michelangelo.
Davanti a tanta eccellenza artistica, che spazia dalla scultura alla pittura alla architettura, si rimane basiti, senza fiato. Di tanta bellezza si gode non si discute.
Ma come pollicino ha seminato briciole sulla lunga strada che lo avrebbe riportato a casa, provo a spargere un frammento di questo Maestro sperando che ci conduca alla casa della sua ammirazione e del suo profondo rispetto.
Il frammento di cui parlo è la Pietà…la sua opera di una vita. L’Opera che lo ha ossessionato.
Frammento mi vien da dire perfetto data la Pasqua appena passata.
La Pietà evoca infatti il momento drammatico in cui la madre (la Vergine) accerta la morte del Figlio Gesù dopo che è viene tirato giù dalla croce…tre giorni prima che resusciti (la Pasqua appunto)..
Diverse sono le versioni della Pietà proposte da Michelangelo..le più famose tre (La Pietà in Vaticano, la Pietà del Duomo di Firenze, la Pietà Rondanini)..ma la leggenda narra che ne scolpì più di 10.
La Pietà è l’espressione più alta del pensiero più profondo di Michelangelo.
Il suo pensiero è questo: lo scultore non può concepire alcuna idea di figura che già non si trovi nel marmo, anche se lì è circondata da materia in più, inutile, e a quella figura può arrivare solo la mano che segue l’idea suscitata dalla mente e può raggiungerla solo a colpi violenti di scalpello..
“Con tanta servitù, con tanto tedio e con falsi concetti e gran periglio dell’alma, a sculpir qui cose divine.” (Michelangelo Buonarroti, Rime 282)
E le cose divine sono le forme (sinonimo di sostanza) intrappolate nella materia…nella pietra.
A soli 22 anni Michelangelo realizza la sua versione più conosciuta oggi conservata a San Pietro.
L’imponente scultura (H: 1,75m L:1,95m) raffigura la Vergine seduta con in grembo il figlio Gesù morente.
C’è unità, armonia,perfezione.
La bellezza delle figure, l’estrema raffinatezza della lavorazione del marmo (levigato con batuffoli di paglia) trasudano la totale idealizzazione dei personaggi…la lucentezza…la magnificenza visiva. Non c’è dramma. Si avverte il netto distacco tra la dignità “celeste” e la normale sofferenza umana.
Niente male per uno che fin dagli esordi fu sostanzialmente un autodidatta. Ma l’artista non è soddisfatto.
Nella Pietà del Vaticano, per quanto imponente e meravigliosa, la materia..così lucente e presente…vince ancora sulla forma (sulla sostanza) racchiusa nel marmo.
Ed ecco allora che Michelangelo sente l’esigenza di scagliarsi di nuovo contro la pietra e rendere ciò che la sua giovane età non gli aveva permesso di far emergere.
Ha radici profonde nel suo fare il dissidio tra ciò che è finito e limitato (la materia…la pietra) con quello che è infinito e potente (la forma…che rappresenta l’essenza). C’è dualità. La stessa dualilità che ha caratterizzato la sua vita personale (due “madri”, la balia e la madre naturale; due imput diversi alla scultura: la balia, che da sorella di uno scalpellino, lo incita e il padre per cui gli scultori sono solo manovali; la sua omosessualità).
Dissidio e dualità che iniziano ad emergere nella pietà Bandini (1547-1555), anche chiamata Opera del Duomo di Firenze per la sua originaria collocazione.
Alla calma imperturbabile della Pietà del Vaticano si contrappone ora la drammaticità propria del momento più toccante dei Vangeli, quando le persone più vicine al Cristo, tra cui la madre, ne constatano la morte.
In questa scultura Michelangelo raffigura Gesù privo di sensi adagiato sulla Madonna che lo sorregge. Sovrasta la figura di Giuseppe d’Arimatea (o secondo alcuni Nicodemo).
E’ dal corpo di Giuseppe/Nicodemo che sembra uscire il Cristo..proprio per rendere la sofferenza. A sinistra la figura della Maddalena..lasciata dal Buonarroti allo stato di non-finito.
Un non-finito carico di significato.
L’artista lascia volutamente le sue creazioni incompiute: zone indistinte accanto ad altre finite. La rappresentazione chiara del violento contrasto tra il moto vitale della forma e l’immota pesantezza del marmo.
La forma, imprigionata nella sua scorza come l’anima nel carcere terreno del corpo, viene estratta dal suo involucro mediante una operazione che è un tutt’uno con la titanica lotta dell’uomo per la propria liberazione dal peso della materia.
Si giunge così alla Pietà Rondanini (1552-fino alla morte; H:1,95m), collocata al Castello Sforzesco di Milano, raffigurante il Cristo e la Vergine attaccati insieme, sbozzati e non finiti. Le loro figure, accanto alle gambe e al braccio di una terza persona mancante, hanno i volti erosi e consunti, quasi diano segno di un disfacimento in atto. I loro corpi si compenetrano l’uno nell’altro. La perfezione anatomica della prima pietà si è persa.
È l’esempio estremo e straordinario del suo modo di procedere assolutamente originale: ad 89 anni un’instancabilefrenesia lo aveva portato, notte dopo notte, a graffiare nel marmo..a liberare lo spirito che si dibatte nella materia.
La Pietà Rondanini è il trionfo dell’essere sull’apparire. È il trionfo di ciò che c’è dentro rispetto a quello che sta fuori.
E pensare che fu stimata all’epoca in 30 scudi…a dimostrazione oggi come allora che la sostanza spesso vale poco rispetto alla mera apparenza.”

M.A.R.

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