Il film di Bellocchio su Eluana Englaro resta senza finanziamenti.

UDINE, 7 GENNAIO ’12Il regista Marco Bellocchio, dopo l’annuncio dato quest’estate, sta per iniziare le riprese de «La bella addormentata», pellicola ispirata alla vicenda di Eluana Englaro e dei suoi 17 anni trascorsi in stato di coma vegetativo. Ma contro le intenzioni del regista si è schierata la Regione Friuli Venezia Giulia: il Consiglio ha approvato un ordine del giorno dell’UDC, per non finanziare la pellicola. «Non vogliamo passare per una regione dove vige la cultura della morte» è stato il commento di Piero Camber (Pdl), presidente della commissione cultura del consiglio regionale.
In realtà l’ultima parola sugli stanziamenti spetterà alla Film Commission del Friuli, che allo stato, secondo quanto afferma il presidente Federico Poillucci, ha ricevuto solo la sceneggiatura.. Dunque non c’è ancora una richiesta ufficiale della produzione, la Cattleya di Riccardo Tozzi il quale in un’intervista rilasciata a Repubblica, ha dichiarato: «Negare il finanziamento al film di Marco Bellocchio La bella addormentata significherebbe andare contro la legge e forse anche contro la Costituzione».
A quasi due anni di distanza dalla fine di Eluana, l’intenzione di Bellocchio è ripercorrere tutta la tragica vicenda della Englaro. Dall’arrivo alla clinica “Quiete” di Udine il 3 febbraio 2009, alla sua morte, avvenuta il 9 febbraio, dopo che un provvedimento della Corte d’Appello di Milano affermò il diritto all’interruzione dell’alimentazione e idratazione forzata con la quale Eluana veniva tenuta in vita dopo 17 anni di stato vegetativo. Il regista ha spiegatoche non sarà un film di denuncia ma di riflessione legata ad un tema così delicato come il rapporto tra vita e fine-vita. Un tema facilmente strumentalizzabile da opposte fazioni ideologiche e che, invece, andrebbe trattato con il massimo dell’equilibrio e del rispetto per le emozioni in gioco nei singoli casi concreti.

Il padre di Eluana, Beppino, che ha portato avanti per lunghi mesi la sua battaglia per rivendicare il diritto al fine-vita, racconta di aver parlato con Bellocchio e dargli la sua piena fiducia.

Dopo la morte di Eluana, il padre Beppino Englaro ed altre 13 persone tra medici, anestesisti ed infermieri, erano stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Udine per omicidio volontario. Nei confronti di Beppino Englaro e degli altri indagati era stato ipotizzato il reato di omicidio volontario in concorso. La Procura della Repubblica aveva chiesto l’archiviazione dopo il deposito, il 16 novembre scorso, di una perizia sull’attività encefalica di Eluana eseguita dai neurologi Fabrizio Tagliavini di Milano e Raffaele De Caro di Padova, nella quale si evidenziava che la condizione ”era coerente con lo stato vegetativo persistente” in cui la donna si trovava dopo l’incidente automobilistico avuto nel 1992 e che ”i danni neuropatologici osservati erano anatomicamente irreversibili”. Il Gip del Tribunale di Udine aveva accolto la richiesta di archiviazione della Procura ed emesso decreto di archiviazione del procedimento per infondatezza della notizia di reato.
Questa vicenda, che il regista Marchio Bellocchio si appresta a rileggere con il suo film, ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dell’eutanasia, ovvero del diritto ad una fine della vita realizzata in modo indolore. Il termine greco “eutanasia” significa infatti “dolce morte”. Sul punto si riscontrano considerazioni diverse e legate alla cultura individuale di riferimento. Da una parte vi è chi, aderendo ad una impostazione tendenzialmente laica del diritto alla vita, considera la morte una “scelta di vita” non solo da rispettare ma anche, se richiesto, da agevolare mediante la possibilità di accedere a metodi “indolori”, e dall’altra un’impostazione cattolica che considera la vita non come un diritto dell’individuo al quale, quindi, non può essere riconosciuta alcuna libera scelta su come terminarla.
Come sempre accade la normativa di riferimento rappresenta il punto di incontro e di mediazione tra queste opposte visioni, in relazione ai costumi sociali del momento storico a cui si riferisce .

In Italia l’eutanasia non è disciplinata in maniera autonoma dalla legge, ma deve intendersi come vietata. Applicare la “dolce morte” ad una persona è assimilabile all’omicidio volontario, che l’art. 575 codice penale punisce con la pena non inferiore a 21 anni, così come era stato inizialmente ipotizzato dalla Procura di Udine a cariche di Beppino Englaro e dei medici coinvolti. Se invece si dovesse dimostrare che vi era il consenso della “vittima” si tratterebbe pur sempre di omicidio del consenziente, che l’art. 579 punisce con una pena da 6 a 15 anni di reclusione.
Il codice penale prende invece in considerazione l’ipotesi del suicidio, ovviamente non punibile (neppure nelle forme del tentativo) trattandosi di scelta del tutto privata, ma punendo con l’art. 580 l’istigazione o l’agevolazione al suicidio (pena da 5 a 12 anni). Tra i principali paesi europei, l’eutanasia è disciplinata solo in Olanda, mentre in Svizzera è consentito il suicidio assistito attraverso l’opera di un’associazione privata che si chiama “Dignitas” cui molte persone si rivolgono per evitare i divieti previsti nei rispettivi paesi di origine.
Il rifiuto della cura, invece, anche in Italia non è assimilabile ad un suicidio, ma rientra nei diritti della persona, come insegna il caso Welby.
Il problema, come invece emerso nel caso Englaro, sorge quando l’interruzione di ogni forma di trattamento medico o di supporto deve avvenire nei confronti di un soggetto in totale stato di incoscienza.Teoricamente il medico dovrebbe comunque proseguire le cure in assenza di una consapevole espressione della volontà del paziente, entro il limite del c.d. accanimento terapeutico. Quando si raggiunge tale limite non è facile stabilirlo. Spetta al buon senso del medico e dei familiari, o ad una sentenza come invece affermato dal caso Englaro.
Per anni si è discusso in Italia di come stabilire preventivamente dei limiti al diritto alla cura, normando il cd. “testamento biologico”. La ratio di tale istituto sarebbe consentire a chiunque di disporre del proprio trattamento terapeutico qualora si venisse a trovare in stato di incoscienza, ad esempio escludendo preventivamente il ricorso all’alimentazione forzata.

Ma il 12 luglio 2011 la Camera ha approvato il DDL sul “testamento biologico”, che per il varo definitivo dovrà tornare al Senato. I punti principali sono due: le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) non vincolano i sanitari e viene esclusa la possibilità di sospendere nutrizione e idratazione, tranne che nei casi terminali. Inoltre, i DAT sono applicabili solo se il paziente ha un’accertata assenza di attività cerebrale. L’art.1 del DDL è una sorta di dichiarazione di intenti, che puntualizza in maniera inequivocabile quale siano i principi informatori del DDL che, appunto, “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”, e vieta esplicitamente “ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonchè all’alleviamento della sofferenza”. L’articolo 3 è il punto focale del DDL, in quanto definisce i limiti e le modalità delle dichiarazioni anticipate di trattamento, dove il dichiarante “esprime orientamenti e informazioni utili per il medico, circa l’attivazione di trattamenti terapeutici purchè in conformità a quanto prescritto dalla presente legge”. La legge stabilisce, di fatto, che il paziente possa dichiarare esplicitamente quali trattamenti ricevere, ma non possa invece indicare quelli ai quali non intende essere sottoposto. La norma ribadisce, poi, che alimentazione e idratazione “devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. Si ricorrerà ai DAT, inoltre, solo per soggetto che sia “nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale e, pertanto, non può assumere decisioni che lo riguardano”.
Altro elemento cruciale della legge, che ha suscitato le principali polemiche dei laici che avrebbero voluto una legge diversa e più coraggiosa, è l’art.7 del DDL che statuisce che il biotestamento non sarà vincolante per il medico: “Gli orientamenti espressi dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento – si legge infatti nel testo – sono presi in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno”.
Ma il DDL che, come detto deve tornare al Senato per la sua definitiva approvazione, è di nuovo arenato incagliato com’è il Paese tra problemi di politica economica al momento preponderanti.

Non ci resta, dunque, che aspettare il film di Marco Bellocchio per provare a riflettere in maniera autonoma e libera su questi delicatissimi temi nella speranza che lo Stato, che troppo spesso supporta il “cinema spazzatura” o progetti di dubbia qualità, cerchi di contribuire alla realizzazione di una pellicola che, al di là delle legittime opinioni personali, affronta un tema importante e delicato.

TOMMASO ROSSI

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