CHIESA E PALAZZO ANTICHI in DEGRADO
di Giampaolo Milzi
La Chiesa di Santa Mara di Vico
Una “chiesa rispettabile per antichità e per istituzione”, si legge nelle “Notizie Istorico-critiche di Varano”, un manoscritto steso alla fine del ‘700 da don Vincenzo Cruciani, all’epoca pievano della parrocchia di Varano (l’unica importante fonte scritta che abbiamo rinvenuto per documentarci). Probabilmente di origine medievale, l’ipotesi (da altri manoscritti del ‘500) è che abbia tratto il nome da un colono, Domenico Vico, forse capo di un casato nobiliare, che risiedeva in un terreno lì vicino. La chiesa in origine apparteneva alla Comunità e al Comune di Varano (all’epoca municipalità autonoma da Ancona). Risulta da antichi carteggi: il Comune provvide a dotarla di una lampada di ottone, ne aggiustò il tetto, sostituì i ferramenti delle porte, ogni anno sosteneva spese per la manutenzione, le candele, le messe e il convitto, così come quelle per i sacerdoti invitati nella ricorrenza del 25 marzo dedicata alla Maria Vergine Annunciata.
La svolta nella seconda metà del ‘500, quando il conte Angelo di Girolamo Ferretti, facoltoso possidente di Ancona, decise di investire ingenti somme per acquistare appezzamenti di terra a Varano, tra questi buona parte della Contrada di Santa Maria di Vico. E, incantato dalla chiesa, decise di ristrutturarla e rimaneggiarla completamente, ponendola al centro di un nucleo di produzione agricola e di villeggiatura. Ne lasciò tuttavia sostanzialmente immutato l’impianto architettonico. Lo stesso che la contraddistingue ancora oggi. A navata unica, può ospitare un centinaio di persone. Ai lati della facciata, ornata dallo stemma dei Ferretti, due cappelline ad “ala”, ciascuna con finestrino: sulla destra il locale adibito sacrestia, a sinistra un locale di ricovero. Sulla parte retrostante del tetto si erge un minuto campanile a vela. All’interno, nonostante le ruberie e le spoliazioni succedutesi da decenni, è ancora una gioia per gli occhi: due altari in legno, di cui uno splendido, l’urna che conteneva le ossa di Santa Valeria (trafugate due volte e sparite), un confessionale, artistiche lapidi sepolcrali scolpite e montate sulle pareti, lastre decorative pavimentali, panche settecentesche per i fedeli. Una curiosità: l’orientamento della chiesa è da ovest verso est; a oriente, sulla strada dà il portale in legno, che chissà da quanto è sfondato; ciò fa presumere che almeno il rimaneggiamento ad opera di Angelo Ferretti fu realizzato a seguito del Concilio di Trento (dopo il 1563), quando divennero più flessibili le norme che imponevano invece un orientamento est – ovest.
Una chiesa consacrata e, come l’ex Casino di campagna poi divenuto lussuoso edificio residenziale, palpitante di vita, nonostate tutto. Fino ai primi anni 2000, quando Anna Ferretti era ancora viva, i suoi cinque figli (due femmine e tre maschi) e I tanti nipoti si ritrovavano a Varano per trascorrere la villeggiatura estiva nel palazzo immerso nel verde. In una unica domenica pomeriggio di quelle estatiil parroco di Varano, don Fausto Guidi, officiava nella chiesa la messa, alla quale partecipavano non solo i tanti componenti della famiglia Ferretti coi loro numeorsi parenti, ma anche gli abitanti della frazione. E a maggio, nella chiesa, fino al termine degli anni ’60, si concludeva con una funzione una solenne processione che partiva dal centro di Varano.
Le opere d’arte ancora presenti nella chiesa
Uno dei reperti più importanti è la lastra pavimentale, in pietra calcarea rosata ma un po’ ingrigita dal tempo, che abbiamo ammirato al centro della navata, divisa in due parti. “In quella superiore campeggia uno stemma bibapirtito in bassorilievo, con a sinistra il simbolo dei Ferretti, e a destra quello dei Gallo. “Si tratta di un reperto unico e straordinario, – spiega Giuseppe Barbone, uno dei consulenti dell’Urlo Indiana Jones Team – in quanto l’affiancamento dell’arma canonica dei Ferretti (scudo rosso, segnato da due bande d’argento) a quella della nobile e antica famiglia dei Gallo (un gallo in cima alla torre della città di Osimo) documenta l’avvenuto imparentamento, già nel ‘500, dei due casati”. Nella parte inferiore della lastra, un ovale racchiude un’iscrizione sepolcrale-celebrativa di Angelo Ferretti, dove si legge, tra l’altro, “signore benemerito della repubblica per liberalità, generosità e ospitalità, famoso presso i principi più illustri e da tutti per sue virtù, cultura e nobiltà” e la data della sua morte, all’età di 68 anni. Nato ad Ancona nel 1506, figlio di Girolamo e Riccabella Venier, Angelo Ferretti fu tra i più eminenti personaggi della sua casata, la cui stirpe dorica raggiunse con lui il massio splendore. Ricchissimo e con tante amicizie influenti, iniziò la sua inarrestabile ascesa nel 1533, dopo aver subito per tre anni l’esilio comminatogli dal legato pontificio cardinale Benedetto Accolti. Tornato nel capoluogo marchigiano, vi avviò il cantiere del magnifico palazzo Pellegrino sul Colle Guacso, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale delle Marche. Le sue proprietà contavano oltre cento immobili, tra cui magazzini ed osterie, oltre a numerosi appezzamenti di terreni. Sposò Girolama, figlia del conte milanese Ambrosio Landriani, che gli dette nove figli. Tra questi Medea, che maritò al condottiero Giacomo Malatesta da Rimini. Fu proprio il conte Angelo a liberare il genero Malatesta quando questi cadde prigioniero dei turchi. Morì ad Ancona il 13 agosto 1574.
Appena entrati, al centro della navata, spicca dal pavimento un’altra bella lastra con inserito un originalissimo bassorlievo in marmo rosso di Verona: rappresenta al centro un alberello sradicato e agli angoli quattro stelle ad otto punte inscritte in altrettanti cerchi; stelle e alberello sono in pietra grigio scuro, la paragonite. “Un mistero, la sua interpretazione. – secondo Barbone – Al di là dei molteplici riferimenti delle stelle, compreso naturalmente quello alla religione cristiana, potremmo trovarci di fronte a un altro emblema di significato araldico, perche stelle e albero sradicato figurano in molti stemmi”. Una possible testimonianza del pavimento della originaria chiesa medievale prima della ristrutturazione del Ferretti? “No, si tratta di materiale di reimpiego, penso dal ‘400-‘500 in poi”. L’architetto Massimo Di Matteo, altro consulente dell’Urlo Indiana Jones Team, propende invece per una datazione più antica, riferita al periodo romanico: “Prendiamo ad esempio il motivo ornamentale dell’alberello sradicato. Lo stesso è presente anche in una lastra sulla facciata della Chiesa di San Ciriaco ad Ancona”
In fondo alla navata troneggia l’elegantissimo altare maggiore, in legno scolpito e dipinto con trionfo di tinte dorate, e con inserita frontalmente l’altrettanto bella urna che fino a pochi anni fa conteneva la reliqua di Santa Valeria Martire (“CORPUS S VALERIA M”, c’è scritto in lettere lignee). Sul soffttto l’affresco di una bellissima colomba raggiante.
La cappella di destra ospita ancora un confessionale, quella di sinstraun altare in legno. Sulle pareti laterali, una decina di lapidi ottocentesce, alcune di grande valenza scultorea e decorativa, a celare i sepolcri coi resti di vari conti, contesse e membri del casato Ferretti.
Le opere d’arte trasferite dalla chiesa
La più importante è certamente il grande quadro, originariamente presente dietro l’altare maggiore, che rappresenta la Beata Vergine col bambin Gesù, San Giovanni Battista e Santa Caterina martire. Si tratta di un olio su tela firmato da Domenico Peruzzini il 2 novembre 1634. Sull’angolo in basso a destra del dipinto compare un personaggio com mani giunte, si tratta del commitente dell’opera, Angelo Di Giulio Ferretti (1576 – 1649), del ramo degli Scalzi, proprietario nel XVI secolo del complesso “Villa Ferretti”. Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli eredi lo rimossero e lo trasferirono nel palazzo vicino per tenerlo più al sicuro. Poi fu vincolato dalla Soprintendenza, che lo resaturò, e quindi, in base ad una convenzione con i Ferretti, ottenne che fosse spostato nella chiesa di San Pietro, la parrocchiale di Varano, affinchè fosse visibile a un vasto pubblico. Il grande valore dell’opera non sfuggì a Vittorio Sgarbi, il quale riuscì ad esporlo nella mostra “Da Rubens a Maratta” sul Seicento marchigiano da lui organizzata ad Osimo nel 2013. “Scaduta da molti anni la concessione da noi firmata con la Soprintendenza, ne abbiamo reclamato con forza la restituzione, e da allora il quadro è a Trento a casa di mia sorella Maria Rosa”, ci ha detto la signora Iolanda Balladone Palmieri. Nella stessa abitazione privata di Trento è ospitato il quadro di Santa Valeria martire (sec. XVII, autore ignoto), originariamente dietro l’altare nella cappellina sinistra della Chiesa di Santa Maria di Vico (anch’esso, negli anni ’70, era stato spostato nel palazzone attiguo). “A casa mia, a Torino, abbiamo altre due opere di autori ignoti che un tempo erano nella chiesa – ci spiega la signora Iolanda – Un quadro seicentesco che rappresenta Sant’Elena e il ritrovamento della vera croce di Cristo (che proverrebbe dalla chiesa di Sant’Agostino di Ancona, ndr.) e una statua lignea di San Giuseppe, dei primi del ‘700, collocata in una nicchia sul lato destro”. Non si è mai saputo che fine abbia fatto un altro quadro un tempo presente nella chiesa, un ritratto di Angelo Di Girolamo Ferretti.
Il casino di campagna
Fu Angelo Di Girolamo Ferretti, alla fine del ‘500, a porre la prima pietra del primo casino patrizio di campagna e di caccia, identificabile nel corpo sul lato sinstro della chiesa. “Tale costruzione, doveva costrituire il fulcro dell’azienda agricola che la circondava – si legge nella relazione storico-artistca del vincolo della Soprintendenza – con ampie cantine e magazzini al piano terreno, a tutt’oggi conservati. La facciata, attualmente intonacata, si caratterizza inoltre per il motivo ornamentale in mattoni posto lungo la linea di gronda”. “Nel secolo XVII l’edificio, non rispondendo più alle mutate esigenze della famiglia, fu ampliato con l’aggiunta di un nuovo corpo di fabbrica addossato (“ad elle, ndr.)”; il cui pianterreno veniva ancora destinato ad usi agricoli ed a servizi; mentre gli ambienti del primo e del secondo piano venivano riservati alla residenza e arricchiti con volte e belle mostre di pietra, con decorazioni in stucco”, spiega ancora la relazione. Tale accrescimento fu voluto probabilmente dall’omonimo Angelo Ferretti (1576 – 1649), anche lui conte, e certamente da Giuseppe Ferretti “che pure mantenne costante l’utilizzazione della dimora campestre come centro di lavoro e di produzione dell’attigua tenuta, nonché di conservazione dei prodotti ad essa inerenti”.
Tra il 1770 e il 1773 Corrado Ferretti fece erigere un ulteriore immobile, con funzione esclusivamente residenziale, separato dal precedente da uno scalone di raccordo, che fungeva da entrata per le carrozze e i calessi nell’ampia corte rurale con servizi ora diventata un cortile. Questa costruzione, com ampia facciata a sud alta ben 21 metri, si può ammirare dal grande giardino su cui è rivolta. Costituisce l’ala destra del palazzo nobiliare, su due piani poggianti in arcate, completato in un “unicum” di circa 2000 metri quadri calpestabili (con corridorio di raccordo) grazie anche alla realizzazione dell’ala sinistra nell’800 e inglobante il vano originariamente destinato all’androne con scalene.
Le case coloniche
Secondo quanto riferito dagli attuali proprietari, attualmente ne sono riconoscibili tre. Due, con magazzini e una stalla, ricavate nell’edificio longitudinale a sinistra della chiesa che aveva fuzione di casino di campagna e caccia (sec. XVII). La terza è sulla destra della chiesa, connessa alla cappellina-sacrestia. Attualmente appartiene ad un cognato della signora Iolanda Balladone Pallieri e si presenta semidiroccata, accessibile dall’esterno. Ospitava anch’essa una stalla, oltre a un grande forno (ancora in parte riconoscibili) che ancora nell’800 riforniva di pane l’intera borgata. Fino al 1972-73 era perfettamente operativa. I lavoratori vi tenevano mucche, maiali, conigli, galline. Parte degli animali da cortile veniva messa in vendita, così come le uova, il latte delle mucche, gli insaccati (soprattutto prosciutto e lonze) rivavati dai suini, la grande varietà di ortaggi prodotti nei campi circostanti il complesso. Il fondo agricolo – che anticamente comprendeva anche il vasto terreno che si estende sul lato opposto della strada su cui dà la chiesa, poi diviso tra più eredi – è ampio attualmente 16 ettari, non più coltivati. Tranne un bell’uliveto, di fronte al grande palazzo nobiliare, concesso in uso gratuito a un residente di Varano.
(articolo tratto da Uro-mensile di resistenza giovanile)