Shazam (di David F. Sandberg), la recensione

di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)

Non poteva che iniziare nell’oscurità Shazam. David F. Sandberg attinge al genere a lui più familiare per costruire un prologo dalle tinte oscure e minacciose nel quale ci viene presentato il futuro antagonista della storia. Ma è solo un intermezzo che riapparirà comunque per brevi momenti in un film dalla vena ironica e giocosa. Ambientato nel turbolento arco narrativo dell’universo cinematografico DC, Shazam può considerarsi il primo cinecomic di casa DC per famiglie. Proprio della famiglia e della relazione tra adolescenti e adulti ne fa un topos con il filo conduttore della presenza/assenza dei genitori che dall’Uomo d’Acciaio contraddistingue gli eroi DC.

In Shazam Billy Batson è un adolescente di 15 anni, abbandonato piccolissimo dalla madre, che scappa di continuo da famiglie affidatarie e che segretamente ricerca ancora quel genitore. Ambientato nella Philadelphia che ha reso celebre Rocky, Shazam punta forte sulle difficoltà nel trovare un luogo da chiamare casa in un mondo freddo e respingente come il clima della metropoli della Pennsylvania.
Accolto dall’ennesima casa famiglia si imbatte nel nerdismo di Freddy, un coetaneo disabile che vive nel mito degli eroi presenti sulla Terra, su tutti Superman e Batman. Così quando un anziano mago, protettore dei sette regni lo sceglie come Campione per conferirgli i suoi poteri, pronunciandolo una semplice parola, è inevitabile per Billy chiedere l’aiuto del fratello adottivo. In un corpo adulto Billy, tra l’incredulo e l’eccitato, dovrà capire cosa fare e come utilizzare quei doni.
Al contrario degli altri personaggi dell’universo DC Shazam è il primo eroe che abbraccia senza insofferenza o tormenti il suo essere al di sopra della normalità, ama farsi vedere e adulare e soprattutto vive la propria super potenza come un gioco, un’avventura che lo distoglie da un quotidiano di malinconia quando è un semplice quindicenne.

Capace, in misura differente al Deadpool di Ryan Reynolds, di prendere in giro le dinamiche (specie sul versante eroe-villain che combattono snocciolando improbabili monologhi) da cinefumetto, Shazam mantiene il proprio stile spassoso e al contempo credibile proprio perché ancorato al contesto in cui è inserito. La scuola, le domande per il college, emarginazione e bullismo, una realtà che parla di inclusività, multiculturalismo e famiglie allargate in maniera naturale, lontano dalla retorica e pigrizia narrativa di molto cinema nostrano. Ed è inoltre la parte di sceneggiatura in cui Shazam riesce ad esprimere il proprio meglio diventato una sorta di coming of age di cinema indipendente nord-americano (non a caso nella dinamica bambino che diventa adulto e in alcuni scenari il film si ispira al quel Big in cui il protagonista interpretato da Tom Hanks aveva come migliore amico un ragazzino di nome Billy).

Zachary Levi poi, cosi come il convincente Mark Strong ad impersonare il villain custode dei sette peccati capitali, è straordinariamente a suo agio nella parte di un eroe che impara ad esserlo facendo davvero squadra, al contrario dei colleghi della Justice League, con i propri compagni di viaggio.
Mai stucchevole o pretenzioso quando inevitabilmente deve mettere in scena i passaggi tipici da cinecomic fatti di battaglie, adrenalina e vetri infranti, Shazam lo fa bene perché come suddetto convoglia tali elementi all’interno di scenari e situazioni da vita quotidiana; sarà proprio nell’ambientazione dove divenne orfano mentre giocava innocentemente che Billy troverà finalmente, al di là dei legami di sangue, una vera famiglia e una casa che si possa definire tale.

Shazam non apporta spunti innovativi al genere, ma è senz’altro un prodotto che esprime senza censure la propria goliardia; una piccola evasione, la settima per la precisione, e non poteva essere altrimenti visto che si parla dei sette peccati e dei sette regni, di un universo cinematografico che sta esplorando nuove strade per affezionare l’audience.

shazam

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