Quanto ci costa il “Senza sapere”

copertina libroSAGGIO DI GIOVANNI SOLIMINE

– ROMA – di Elisa Messina –

 Come sta l’Italia? è sempre il Bel Paese degli anni del Grand Tour, meta inevitabile e necessaria dei viaggi di formazione tra Settecento e Ottocento? Oppure è una povera signora decaduta tra gloriose eredità in rovina? Forse farebbe bene a riflettere, anzi a riflettersi di fronte a “Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia”, saggio di Giovanni Solimine, edito da Laterza (Roma, 2014). Un libro-specchio che mette a nudo le tante rughe di una realtà nazionale appassita e stanca.

Quando si parla di cultura, è facile lasciarsi tentare dall’immaginazione, facendo ricorso a singolari immagini ad effetto, talora apocalittiche. Morte del libro… tanto per citarne una delle più fantascientifiche.

In verità non è il libro ad essere morto. Si dovrebbe piuttosto parlare di morte della sensibilità, della curiosità per il Bello.

Giovanni Solimine si affida alla lucidità del dato numerico, per mettere bene in vista, quasi fosse il suo saggio un’analisi medica, il malessere attuale: “I dati ci descrivono un’Italia priva di conoscenza e di competenze, un Paese senza sapere. Siamo talmente ignoranti da non comprendere perfino quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari”.

Spaventosa, per non dire terrificante, una percentuale, che, ahimè, non viene dal pianeta dei marziani, ma da un’indagine OCSE, pubblicata nell’ottobre 2013 e riportata dall’autore: “Il 70% della popolazione adulta del nostro Paese non possiede le competenze minime, (in particolare linguistiche e numeriche), ritenute indispensabili per poter vivere da cittadini consapevoli nel XXI secolo”.

Il valore della cultura non è più percepito come un mezzo determinante per l’ascesa sociale, per la conquista di una posizione di spessore. E, fatto ancor più grave, l’istruzione, al giorno d’oggi, non riesce più a garantire nemmeno un posto di lavoro dignitoso.

Paradosso dei paradossi è che i laureati italiani, pur essendo pochi rispetto alla media europea (solo il 15% degli italiani adulti ha raggiunto un livello d’istruzione universitaria), restano disoccupati. La pubblica amministrazione avrebbe tanto bisogno di ingegneri, bibliotecari, storici dell’arte, archeologi…. Purtroppo, allo stato attuale dei fatti, sono destinati a rimanere a spasso, anche dopo aver superato concorsi.

C’è chi, rassegnato e avvilito, resiste. Lo fa arrangiandosi tra lavoretti saltuari, collaborazioni occasionali, contrattini “mordi e fuggi”. E c’è chi invece, disgustato e nauseato, si dà all’esodo verso qualche possibile terra promessa.

Intanto dilaga in maniera indiscriminata la moda di accaparrarsi funzioni di prestigio solo attraverso spintarelle e presentazioni giuste, con la furbizia, senza alcun sacrificio, senza orgoglio.

Per giustificare le gravi lacune nel campo della valorizzazione della cultura, ci si nasconde spesso dietro ad espressioni, come “tagli”, “spending review”. Secondo la politica attuale, sono la vera “morale” di ogni riforma. Invece, stando alla realtà, tali espressioni, una volta messe in pratica, risultano deleterie, perché privano il Paese dei suoi rami vitali.

Sull’esempio dei classici, conviene tornare a considerare la conoscenza come una forma di “benessere”, che consente il raggiungimento del pieno equilibrio, di un’autentica armonia con se stessi e con gli altri. Il noto detto “Mens sana in corpore sano” va ripensato, per cercare di dare un volto nuovo ad una società con profondi disagi, dovuti a disuguaglianze, generate da un profondo “spread” nell’accesso al sapere.

è triste pensare che nello storico Istituto di Storia dell’Arte di Palazzo Venezia a Roma, gli addetti all’accoglienza, con aria stanca e amareggiata, tra libri spesso mal custoditi e catalogati, consigliano all’utenza di fare ricerca all’Istituto Germanico della Hertziana, “perché lì i servizi sono di alta qualità, grazie ad un sistema efficiente e ben strutturato”.

L’Italia non è più il mito di Goethe. Potrà tornare ad esserlo, se saprà contare sulle sue risorse, se saprà credere in un “futuro dal cuore antico”.

Banda larga, agenda digitale, promozione della lettura sono alcune vie d’uscita, ma non bastano. Per venir fuori dalla palude, l’io del cittadino deve sapersi mettere al centro, non per vanagloria o voglia di spettacolo, ma per un impegno concreto e responsabile nella riconquista di una cultura che è bene comune, fondata sulla cosiddetta “literacy”, su un’appropriazione critica e consapevole del sapere, attraverso le chiavi giuste, che un’adeguata educazione può offrire. Ci vogliono serietà, onestà e volontà per riuscirci.

Non è vero che “con la cultura non si mangia”… anzi, con l’Expo 2015, che invita a “nutrire il pianeta”, conviene riscoprire la vera specialità del Bel Paese: il sapore del sapere.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

 

 

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