Paterson, la recensione

di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)

 Paterson

Paterson non ha trama, nessuna dinamica articolata; la trama, la vera storia è quella che può appartenere ad ognuno di noi nella propria quotidianità.

Jim Jarmush firma un’opera intima e delicata nella sua estrema semplicità, la stessa che caratterizza l’esistenza di Paterson, un autista di autobus della città dal quale prende il nome, Paterson in New Jersey.
Per tutto il film assistiamo per una settimana alle giornate sempre uguali di Paterson: il risveglio naturale abbracciato a sua moglie Laura, la colazione, il lavoro, il rientro a casa per la cena, la passeggiata serale con il cane Marvin e la tappa fissa al bar per una birra.

Niente di più ordinario, eppure anche in quella ciclica quiete c’è spessore nella vita di Paterson, una profondità evocata dalle poesie senza rima che il giovane autista scrive sul suo taccuino segreto, ispirato dai dialoghi dei passeggeri, dalla cascata immersa nel cuore della città, dall’immagine di Laura (Golshifteh Farahani).

Una ripetitività che prende forma nella realtà attraverso i sogni e i desideri personali.
I soliti luoghi, le persone incontrate, le strade non il ritratto opaco di un vissuto monotono ma la traccia di una melodia pacata e al tempo stesso piena di vita, perché in quell’ordine, nella ripetizione delle medesime azioni Paterson è vivo.
La poesia però come la vita a volte è limpida, altre più tortuosa, e le piccole deviazioni, gli intoppi di un copione così pulito sono un tassello prezioso per arricchire lo sguardo e le parole di un poeta candido nella sua immobilità, il cui animo risplende silenziosamente nell’estro di una compagna sognatrice e un po’ infantile.

Paterson non parla di poesia, fa poesia senza voler essere sofisticato, perchè la serenità che molti cercano affannosamente può risiedere negli occhi riservati e beatamente assenti di un uomo ritratto minuziosamente da Adam Driver.

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