Contributo di Lucia Moglie Psicologa Psicoterapeuta
Siamo in stanza di terapia io e una mia giovane paziente, Chiara, di 15 anni: lei mi fa sentire tutto il peso che ha sulle spalle rispetto alla scuola. La scuola è un dovere, è un impegno, una scelta solo in minima misura; i ragazzi la selezionano tra le varie opzioni esistenti per ciò che piace di più, per ciò in cui sono più portati o per ciò che loro interessa. Ma poi seguire le lezioni, studiare, applicarsi, stare a stretto contatto con gli altri sono conseguenze che non hanno attivamente scelto: naturalmente possono avvertirne il peso addosso.
Però il disagio di Chiara non si limita a questo, “Al liceo si pretende tanto” dice lei. “Chi pretende tanto?” le chiedo. Mi racconta del livello di impegno e studio importante, di una preparazione elevata volte a mettere i ragazzi nelle condizioni di poter accedere un domani a qualunque percorso preferiscano.
I suoi genitori ci tengono molto che Chiara sia in linea con tale livello, che rispetti le aspettative di cui sono investiti i giovani che frequentano quel corso. La mamma e il papà hanno loro stessi frequentato un liceo e sono più che convinti che non solo esso consti di una preparazione che “rimane tutta la vita”, ma sono anche decisi a fare in modo che la loro figlia raggiunga risultati brillanti; non sembrano accontentarsi insomma di un livello discreto.
Avverto insomma che sulla vita scolastica di Chiara c’è un alto tasso di pressione esterna. Inoltre, mi incuriosisco quando la ragazza mi riferisce di non avere amiche o supporti all’interno della classe; mi dice che la classe non è un gruppo, ma un insieme di individui singoli e anche in forte competizione tra loro. E a questo punto la curiosità diventa sconcerto. Ma tutto sommato non dovrei stupirmi neanche troppo, perché pensandoci anche un’altra ragazza mi raccontò qualcosa di simile.. e anche un altro, tempo fa.
Mi chiedo cosa sia successo per arrivare a perdere quella fondamentale motivazione ad andare a scuola che era la socialità, intesa nel suo senso più ampio; scherzare, confrontarsi, far confidenze, conoscersi, arricchire il proprio sé sociale (che in quell’età ha tanta fame!). Se nella scuola non possono i ragazzi vedere un risvolto di questo tipo, presumo di capire quanto il peso dell’impegno possa divenire insostenibile!
Ma non è tutto, perché oltre a ciò c’è anche quella competizione esasperata, quella gara, quell’individualismo non sani, che si contrappongono all’unione, al sostegno, alla solidarietà, valori che dovrebbero essere fondanti di una piccola comunità come quella scolastica e in futuro della comunità tutta.
L’altro non è un amico, un’opportunità, una curiosità, un arricchimento; l’altro è un avversario. Se pensiamo a ciò che si è verificato nei Castelli Romani, in quella scuola media in cui una “bambina” di 12 anni ha dato diverse coltellate ad un compagno di classe che sembra aver fatto la spia nei suoi confronti, ci si spiega subito quale clima si vive spesso nelle classi di oggi. Che poi al conflitto, alla slealtà, alla competizione estrema, segua una così grave forma di violenza merita senza dubbio approfondimento in altra sede.
La mia riflessione si concentra quindi sul fatto che i ragazzi di oggi che frequentano quelle che sono sempre state chiamate “le scuole alte” siano esageratamente sotto pressione e che tale pressione sia ancor di più esasperata dalla carenza di una dimensione sociale, gruppale, di supporto, di spensieratezza e dalla concomitante variabile legata alla competitività.
L’interrogativo che è doveroso porsi è se non si possa lavorare tra gli adulti di riferimento (in particolar modo la scuola) per recuperare le basi del senso di gruppo, realtà tanto utile di cui fare esperienza nell’età evolutiva e tanto funzionale per vivere nella società.