Il danno non patrimoniale e il rischio di duplicazioni risarcitorie

QUESTIONE NUOVAMENTE ALLA VAGLIO DELLA SUPREMA CORTE.

di Avv. Michela Foglia

corte_suprema_di_cassazione_a_romaPochi giorni fa la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in merito alla delicata questione relativa al danno non patrimoniale; sebbene già nel 2008, con il quartetto di sentenze di pressochè identico contenuto, tutte pronunciate a Sezioni Unite l’11.11.2008 e note come Sentenze di San Martino, avesse sancito il principio di diritto secondo cui “il danno non patrimoniale è categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in categorie variamente etichettate”, con la Sentenza n. 7513 la Cassazione trae ulteriori conclusioni, destinate a incidere sui futuri orientamenti, facendo anche il punto su una serie di regole relative ai criteri di risarcimento.

La vicenda vedeva contrapposti una nota compagnia con cui era assicurato un veicolo incidentato e un terzo trasportato, rimasto ferito a seguito del sinistro stradale avvenuto durante un viaggio di lavoro; poiché l’Inail aveva già corrisposto una rendita ai sensi dell’art. 13 d.lgs 38/2000 all’infortunato, la compagnia aveva ritenuto di dover corrispondere un risarcimento d’importo minore per i danni patiti e, per questo motivo, era stata convenuta in giudizio.

La domanda attorea di integrale risarcimento veniva accolta in primo grado con un aumento del danno biologico rispetto alla misura standard, a titolo di risarcimento per i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e sociali; tale decisione veniva, però, del tutto ribaltata dalla Corte d’Appello che rigettava il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, motivato dalla riduzione del reddito lavorativo, in quanto considerava non provata la detta riduzione e riteneva che l’aumento del risarcimento operato dal Tribunale avesse immotivatamente duplicato il risarcimento già previsto per il danno biologico.

Il ricorso in Cassazione del danneggiato, basato su ben undici motivi di doglianza, è stata occasione per la Suprema Corte per pronunciare una corposa sentenza nella quale viene enucleato una sorta di decalogo sul danno non patrimoniale che, si legge in sentenza, è materia relativamente alla quale “la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni” mentre quelle create dalla giurisprudenza di merito, dalla prassi nonché dalla dottrina hanno un significato polisemico ovvero rispondono alle tesi che via via intendono avvalorare.

Ciò premesso, poiché già in precedenza, con la Sentenza n. 12310/2015, le Sezioni Unite avevano evidenziato la necessità di individuare un lessico condiviso come “precondizione necessaria per l’interpretazione della legge” la Corte stabilisce preliminarmente la corretta definizione del “danno dinamico-relazionale” comparsa per la prima volta con l’art. 13 del d.lgs. 38/2000, con il quale l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro fu fissato nell’indennizzo del danno biologico e si delegò il Ministero del lavoro per stilare una “tabella delle menomazioni” che, sulla base delle percentuali di invalidità permanente, consentisse di stimare il danno biologico da indennizzare. Tale tabella avrebbe dovuto tener conto anche gli aspetti dinamico-relazionali, intendendo, con tale espressione, le ripercussioni della menomazione sulla vita privata della vittima.

Se, infatti, fino al 2000 l’indennizzo dell’Inail aveva tenuto conto, stante la tabella allegata al d.P.R. 1124/1965, delle sole ripercussioni sull’idoneità al lavoro, modificando l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria, il legislatore ha inteso estendere il novero degli aspetti da considerare ai fini del calcolo dell’indennizzo, fino a ricomprendervi anche gli eventuali pregiudizi subiti nella sfera personale e sociale del danneggiato.

L’art. 5 della L. 57/2001, relativamente ai danni dalla circolazione dei veicoli, inoltre, nel prevedere un aumento del 20% in considerazione “delle condizioni soggettive del danneggiato”, delegò il governo ad emanare una tabella ad hoc per le menomazioni all’integrità psico-fisica che le ricomprendesse tra 1 e 9 punti d’invalidità. Nel decreto ministeriale 211/2003, fu incluso, pertanto, un allegato con i criteri applicativi, nel quale la nozione di “danno biologico” desumibile dai citati testi normativi era individuata nella “menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.

Da tali argomentazioni, nella sentenza in discussione, la Corte desume come il danno biologico consista “in una ordinaria compromissione delle attività quotidiane (gli aspetti dinamico-relazionali); quando però esso, a causa della specificità del caso, ha compromesso non già attività quotidiane comuni a tutti, ma attività particolari (ovvero i particolari aspetti dinamico-relazionali), di questa perdita dovrebbe tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente”.

Chiarito ciò, se il grado di invalidità permanente viene determinato sulla base delle tabelle predisposte con criteri medico-legali che, nel numero percentuale, sintetizzano tutte le conseguenze ordinarie di una determinata menomazione, compresa l’incidenza della medesima sulle attività quotidiane, ne derivano, secondo le statuizioni della Suprema Corte, tre ordini di conseguenze.

In primo luogo la lesione della salute ragione del risarcimento non comprende, bensì corrisponde al danno dinamico-relazionale; in mancanza di esso, infatti, non si potrebbe nemmeno parlare di danno medico legalmente apprezzabile e risarcibile.

In secondo luogo il pregiudizio alle attività quotidiane “dinamico-relazionali” della vittima si indentifica con il danno biologico, le cui conseguenze, se comuni a tutte le persone che sono interessate da quel tipo di invalidità saranno liquidate con la mera dimostrazione dell’invalidità stessa; qualora, invece, si trattasse di conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiamo interessato la vittima con pregiudizi diversi e maggiori rispetto ai casi analoghi, saranno liquidate solo a seguito di prova concreta del maggior danno patito.

Da ciò la conclusione che le “normali” conseguenze del danno non giustificano alcun aumento del risarcimento di base, mentre, da ultimo, qualora sia richiesta al giudice una personalizzazione del danno in sede di liquidazione per la presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, esse dovranno essere tempestivamente allegate in quanto integreranno un “fatto costitutivo” della pretesa e, formeranno oggetto di separata valutazione e liquidazione come previsto dal testo degli artt. 138 e 139 cod.ass. a seguito della modifica operata dall’art. 1 comma 17 L. 124/2017.

Alla luce di queste considerazioni, appurato che per non cadere in una duplicazione risarcitoria sia necessario che le circostanze sulla quale si basa l’aumento del risarcimento integrino pregiudizi che non abbiano fondamento medico-legale, in quanto estranei alla determinazione del grado percentuale di invalidità permanente e siano debitamente dedotte e provate, la Suprema Corte ha ritenuto priva di contraddizioni l’impugnata decisione della Corte d’appello. Il danno liquidato in primo grado, ottenuto applicando le “tabelle milanesi” per la misura standard del risarcimento e aumentando il valore ottenuto del 25% in quanto “la vittima a causa dei postumi patì un grave e permanente danno dinamico-relazionale consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali il Tribunale indicò la cura dell’orto e del vigneto”, rappresentava, difatti, il risultato di una duplicazione risarcitoria; la perdita della possibilità di dedicarsi a certe attività ricreative, idonea secondo il Tribunale a giustificare l’aumento del risarcimento, è stata giustamente riconsiderata, in sede di gravame, come già ristorata, in quanto insita nell’invalidità fissata dalle tabelle milanesi e tale decisione appare, a parere degli Ermellini, del tutto conforme alla definizione del danno non patrimoniale.

Il quadro della situazione relativamente alla liquidazione del danno non patrimoniale, così tracciato con la sentenza 7513/2018 dalla Cassazione, risulta così maggiormente chiarito e ha dettato dei criteri-guida che sono destinati ad essere applicati, si auspica in maniera più coerente di quanto accaduto in precedenza, nella decisione di procedimenti già in essere o futuri.

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