Federico Aldrovandi: ‘E’ stato morto un ragazzo’ ma non il suo diritto alla verità

LA NOTTE DEL 25 SETTEMBRE 2008 MORIVA FEDERICO ALDROVANDI DOPO ESSERE STATO FERMATO DA UNA PATTUGLIA DELLA POLIZIA. DA QUEL GIORNO INIZIA LA BATTAGLIA DELLA FAMIGLIA PER OTTENERE GIUSTIZIA.

di Avv. Valentina Copparoni (Studio Legale associato Rossi-Papa-Copparoni di Ancona)

  “Il caso che il tribunale deve affrontare riguarda la morte di un diciottenne, studente, incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone perbene, padre appartenente ad un corpo di vigili urbani, madre impiegata comunale, un fratello più giovane, un nonno affettuoso al quale il ragazzo era molto legato.
Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione (…).

 Queste sono le parole tratte dall’incipit della sentenza di primo grado di condanna per i quattro agenti di polizia accusati di aver provocato la morte di Federico Aldrovandi la notte del 25 settembre 2008.
Con queste parole inizia il film-documentario “E’stato morto un ragazzo” di Filippo Vendemmiati che  è stato anche proiettato al Cinema Azzurro di Ancona il 15 marzo 2012 durante il  secondo incontro dell’iniziativa intitolata “DIRITTO ALLA VERITA’ Storie troppo ordinarie narrate da film, voci e volti” promossa da una serie di associazioni quali Antigone Marche, Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, Cooperativa IRS L’Aurora, CNCA, Libera presidio Jesi, Donne e Giustizia, Cooperativa sociale Gemma e Cinema Azzurro e volta a sensibilizzare soprattutto l’opinione pubblica sul problema delle carceri in Italia.

E’ la storia di Federico Aldrovandi che ha da poco compiuto 18 anni quando  il 25 settembre 2005 incontra una pattuglia della polizia in Ferrara e qualche ora dopo la famiglia viene a sapere della sua morte. Per il decesso di Federico il Tribunale di Ferrara ha condannato in primo grado (sentenza confermata anche in appello, pendente il giudizio in Cassazione) i quattro poliziotti che avevano fermato il giovane, tutti accusati di omicidio colposo ed eccesso colposo nell’adempimento di un dovere. A seguire un dibattito con il pubblico e il regista del film, la mamma di Federico (Patrizia Moretti), il giornalista Rai Vincenzo Varagona e il legale della famiglia Aldrovandi  Avv. Fabio Anselmo.

Questa l’imputazione formale per i quattro poliziotti:

 “(…) reato previsto e punito dagli artt. 113, 51, 55 e 589, c.p., per avere, con azioni indipendenti tra loro, in qualità di componenti le volanti Alpha 2 e Alpha 3, intervenuti in via Ippodromo a seguito di chiamate di privati cittadini che avevano segnalato la condotta molesta e di disturbo di un giovane (successivamente identificato in Federico Aldrovandi), con colpa consistita:

 1) nell’avere omesso di richiedere immediatamente l’intervento di personale sanitario per le necessarie prestazioni mediche a favore di Federico Aldrovandi descritto dagli stessi agenti in stato di evidente agitazione psicomotoria;

2) nell’avere in maniera imprudente ingaggiato una colluttazione con Federico Aldrovandi al fine di vincere la resistenza eccedendo i limiti del legittimo intervento; in particolare pur trovandosi in evidente superiorità numerica, percuotevano Federico Aldrovandi in diverse parti del corpo facendo uso di manganelli (due dei quali andavano rotti) e continuando in tale condotta anche dopo l’immobilizzazione a terra in posizione prona;

3)  nell’avere omesso di prestare le prime cure pur in presenza di richiesta espressa da parte di Aldrovandi che in più occasioni aveva invocato “aiuto” chiedendo altresì di interrompere l’azione violenta con la significativa parola “basta”, mantenendo al contrario lo stesso Federico Aldrovandi, ormai agonizzante, in posizione prona ammanettato, così rendendone più difficoltosa la respirazione;

cagionato o comunque concorso a cagionare il decesso di Federico Aldrovandi determinato da insufficienza cardiaca conseguente a difetto di ossigenazione correlato sia allo sforzo posto in essere dal giovane per resistere alle percosse sia alla posizione prona con polsi ammanettati che ha reso maggiormente difficoltosa la respirazione”

Il Giudice monocratico Dott. Caruso continua cosi nell’introduzione alle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado.
Parole che ho letto e riletto diverse volte e che a mio parere meritano di essere lette, almeno una volta, da tutti . 

“(…) Quando un affare del genere si verifica in una città civile come Ferrara, dotata di opinione pubblica e società civile reattive, di un sistema d informazione diffuso e disposto a diffondere notizie e spiegazioni e a non subire condizionamenti (gli interessi in gioco non sono tali da indurre cautele ), il fatto di cronaca, una morte di immediato rilievo giudiziario, diventa un caso . Non un qualsiasi procedimento giudiziario ma un affare pubblico ( tutti gli affari giudiziari hanno rilievo pubblico ma nonostante la cronaca giudiziaria costituisca una sezione di primo piano nel sistema dell’informazione, la stragrande maggioranza dei processi, di fatto, resta materia riservata agli addetti).

Il processo come affare pubblico rende accessibili i meccanismi che governano e regolano la giustizia, inverando l’astratta nozione di Stato di diritto; permette al popolo di assuefarsi alle procedure, di condividerne le logiche, di controllare il mantenimento delle promesse, in modo da rafforzare il patto costituzionale.
In questo processo si è consentito al pubblico, aprendo l’aula ai mezzi di comunicazione radiotelevisivi, di avere piena cognizione del modo in cui si
amministra giustizia nel Paese, nel bene e nel male, e si è dato modo al pubblico di formarsi un opinione, fondata sull’esperienza diretta delle prove e del contraddittorio. Ogni persona di buona volontà ed in buona fede può, se vuole, esprimere un opinione informata. Ovvio che la complessità delle cose e il loro aspetto tecnico, specialistico, professionale, può indurre semplificazioni, errori, omissioni, fraintendimenti.

Ma nessuno potrà lamentare silenzi, oscurità, omissioni, il torbido che periodicamente si denuncia negli affari di giustizia.
Anche in questa vicenda non tutto è stato chiarito; rimangono vuoti, ma è possibile affermare che sono state individuate le aree, le condotte, le decisioni operative, le situazioni, nell’ambito delle quali si sono realizzate perdite di conoscenza.
Il processo si è svolto su un tema d accusa che le circostanze e i modi di
svolgimento dell’indagine preliminare hanno reso necessariamente limitata, per scelta obbligata e non perché un quadro ricostruttivo, nitido e cristallino, orientasse inevitabilmente nella direzione data. Non che ipotesi diverse si sarebbero potuto con sicurezza suffragare. il tema della causa può considerarsi posto in modo sufficientemente realistico da escludere, in termini probabilistici, ipotesi diverse.

Sta di fatto che il legittimo bisogno di sapere il modo in cui gli apparati dello Stato fanno uso del proprio potere di ricorrere alla forza legittima non è del tutto soddisfatto. La ragion d essere dello Stato democratico di diritto sta nel garantire che i rapporti civili si svolgano con assoluta esclusione dell’uso della forza e della
violenza. Lo Stato può usare la violenza contro i violenti, i nemici esterni, e i contravventori al patto di pacifica convivenza. La trasgressione di questo vincolo da parte dello Stato, l’uso della violenza contro persone inermi, comunque l uso della violenza fuori dai casi consentiti delegittima lo Stato, gli fa perdere il consenso sul quale soltanto può reggersi come Stato di diritto e finisce con il fornire argomenti a quanti al dominio del diritto sulla forza non credono o non vogliono credere
.

Vi è quindi sempre imperiosa necessità di chiarire se violazione dell’obbligo di
astensione dall’uso della forza fuori dai casi consentiti dalla legge vi sia stato, per restituire fondamento alla convinzione che la violenza pubblica è sempre
giustificata e autorizzata dall’ordinamento. Interesse primario degli organi titolari del relativo potere è dimostrare che l’uso è sempre legittimo e l abuso
puntualmente represso, solo in questo modo potendosi ridurre il tasso di violenza della società, con conseguente minore necessità del ricorso alla violenza legittima dello Stato.

E’ doveroso sottolineare come l’istanza di accertamento della verità ha avuto unsolido fondamento nella posizione delle parti civili che hanno esercitato tutti i
diritti ad esse spettanti. Trattandosi di fare valere la tutela di diritti fondamentali, di diritti dell’uomo e non solo del cittadino, resta il dubbio se, al di fuori della cittadinanza, di una cittadinanza ben radicata nel principio di uguaglianza e di pari opportunità, vi sarebbe stata uguale possibilità di tutela. Se in definitiva gli apparati dello Stato, compresi gli organi di giustizia, siano effettivamente in grado di garantire a tutti i diritti fondamentali dell’individuo che, come in questo caso,
dovessero risultare offesi
.

Nell’esposizione della vicenda processuale si potrà agevolmente intendere quanto difficile e complesso sia stato il percorso dell’accertamento giudiziario, quante le obbiettive difficoltà, quanto grande la contraddizione rispetto agli obbiettivi di giustizia di un indagine giudiziaria di rango penale, affidata inizialmente non tanto e non solo ai colleghi d ufficio di coloro che sono stati poi imputati e riconosciuti responsabili di avere cagionato la morte di Aldrovandi ma agli imputati stessi, autori della iniziale ricostruzione del caso posta a base di tutte le successive indagini.
L’indagine nasce, quindi, con un vizio di fondo che si concreta nel paradosso dei principali indiziati di un possibile grave delitto che indagano su loro stessi, come se il gioielliere che ha sparato sul ladro in fuga fosse autorizzati a indagare sull’ effettiva consistenza dell’invocata legittima difesa.

Un paradosso che il semplice senso comune avrebbe dovuto prevenire. Da qui la strada in salita dell’accusa privata e lo sforzo che essa ha dovuto profondere per far cambiare di segno all’indagine. La necessità dei mezzi che sono stati impegnati, avvocati, consulenti tecnici, investigazioni private, dovendo la parte civile fare i conti non solo con la difesa ma anche con iniziali acquisizioni investigative della pubblica accusa condizionate da
una relazione singolare con una polizia giudiziaria oggettivamente coinvolta in un caso che poneva quesiti sui suoi metodi, le capacità dei suoi uomini, la sua imparzialità in rapporto alle fondamentali scelte investigative iniziali e alle concrete iniziative intraprese che non tennero in alcun conto la possibile, ragionevole pista alternativa di un contributo causale colposo di chi aveva esercitato violenza sulla vittima. Gli agenti coinvolti e i loro colleghi intervenuti nell’immediatezza, in una prospettiva di ragionevolezza e nell’ottica dell’imparzialità e della neutralità, avrebbero dovuto esigere l immediato intervento di un istanza neutra e imparziale, il pubblico ministero, che fornisse, anche solo a livello di immagine, le maggiori garanzie di obbiettività all’indagine, fin dai primi accertamenti, nel primario
interesse degli stessi potenziali imputati, oltre che della giustizia. Quasi un caso di scuola dell’assoluta necessità di un pubblico ministero non solo indipendente dall’esecutivo ( dagli organi di polizia ) ma esso stesso in grado di disporre di un autonoma forza di polizia, specificamente preposta all’ indagine sui crimini di organi e apparati dello Stato
(…)”.

Parole, ripeto, che ho letto e riletto diverse volte e che a mio parere meritano di essere lette, almeno una volta, da tutti . Grazie alla tenacia della famiglia di Federico questa storia è conosciuta oggi da tanti, ma forse ancora non da tutti. Al seguente link (http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/) il blog aperto dalla famiglia Aldrovandi, ho passato diverso tempo a leggerlo, è un libro aperto e da quanto l’ ho scoperto non riesco a non farlo.

La visione del film è stata un pugno allo stomaco, l’immagine del corpo di Federico steso a terra pieno di lividi e la testa immersa in una pozza di sangue ricorre ripetutamente durante tutto il documentario, è una presenza costante, terribilmente violenta ma credo assolutamente necessaria per far comprendere a tutti quelli che non c ‘erano ciò che è successo.

Sono convinta che se in tanti chiediamo risposte, se in tanti cominciamo a pensare che queste cose non capitano solo agli altri, allora forse si potrà ottenere quella Giustizia di cui tanto si parla, di cui tutti parlano ma che  Federico e la sua famiglia  hanno lottato e stanno lottando ancora duramente per ottenere.
Lo credo da avvocato ma soprattutto da cittadino dello Stato italiano.

Di seguito i link sull’argomento trattato dal nostro  Fatto & Diritto:

https://www.fattodiritto.it/morte-federico-aldrovandi-condanne-definitive-per-quattro-poliziotti/

https://www.fattodiritto.it/morte-federico-aldrovandi-altri-due-poliziotti-condannati-per-depistaggio-alle-indagini/

https://www.fattodiritto.it/%E2%80%9Cdiritto-alla-verita%E2%80%9D-le-storie-di-stefano-cucchi-e-federico-aldrovandi-raccontati-in-due-film/

https://www.fattodiritto.it/poliziotto-condannato-per-morte-aldrovandi-insulta-la-madre-del-ragazzo/

https://www.fattodiritto.it/insulti-alla-madre-di-aldrovandi-ministro-cancellieri-annuncia-disciplinare/

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