Fast fashion: quando la moda non fa rima con i diritti

SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI E VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI DIETRO AL FENOMENO DELLA MODA A BASSO CONSUMO

Di Silvia Silenzi**

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Who_Made_My_Clothes_Protest.jpg
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Who_Made_My_Clothes_Protest.jpg

Il fast fashion, tradotto letteralmente con “moda veloce”, costituisce un modello di business caratterizzato dal lancio continuo di nuove collezioni sul mercato composte da capi di bassa qualità, venduti ad un prezzo altrettanto basso, e realizzati con materiali altamente inquinanti, sfruttando la manodopera di lavoratori (spesso anche minori) sottopagati.

Molte delle catene di fast fashion hanno stabilito i propri centri di produzione in paesi come il Bangladesh, il Vietnam, lIndia e lo Sri Lanka, in cui il costo della manodopera è tra i più bassi al mondo. I dipendenti sono dunque costretti ad un ritmo lavorativo estenuante, per conseguire un salario irrisorio, in condizioni sanitarie inesistenti e molto spesso anche in condizioni di grave pericolo.
Rispetto a questo ricordiamo ciò che avvenne nel 2013 con il crollo dell’edificio Rana Plaza, in Bangladesh, in cui morirono più di mille impiegati e si contarono almeno 2000 feriti. L’indignazione causata da questa tragedia portò alla nascita di “Fashion Revolution” , un movimento no-profit globale che nel 2014 lanciò lhashtag #Whomademyclothes con lo scopo di sensibilizzare i consumatori sull’origine dei capi d’abbigliamento che acquistavano.


Come abbiamo già accennato, il salario percepito dagli impiegati di queste grandi catene, corrispondente alla cosiddetta “minimum wage” (la paga minima)che viene stabilita dai governi, ma che corrisponde ad un quinto di quello che è la living wage” (cioè la paga dignitosa), è assolutamente insufficiente a garantire loro di vivere in condizioni decenti. Sotto tale profilo, la pratica del fast fashion si pone in contrasto con le disposizioni contenute nella Dichiarazione universale dei diritti delluomo, che negli artt. 23 e 24 statuisce quanto segue: “Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro […] ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana […] al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite”.

Inoltre, rifacendoci ai dati ufficiali forniti dal Global slavery index del 2018, gli indumenti rappresentano la seconda categoria di prodotti a rischio di ricorrere alla pratica della schiavitù moderna per la loro realizzazione, con più di 40 milioni di soggetti coinvolti nel 2016, tra cui moltissimi bambini. 

A testimonianza di ciò, rammentiamo che all’inizio degli anni 2000 anche il noto brand Nike fu accusato di sfruttamento minorile e, sebbene ci fu una pronta smentita, una tv americana riuscì a filmare fabbriche con operaie bambine sotto i 16 anni. 

Quella della sfruttamento minorile è una pratica estremamente diffusa, spesso legata alla mancanza di sostanze economiche da parte delle famiglie che non hanno altra scelta se non quella di far contribuire i propri bambini alla sopravvivenza dell’unità famigliare, mandandoli a lavorare.

Anche in questo caso vengono violate delle disposizioni di carattere internazionale, contenute questa volta nella Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia, a cui hanno aderito tutti Stati eccetto gli USA.

L’art. 27 al primo comma afferma che “Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo a un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”, mentre l’art. 31 comma 1, statuisce che “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.”.
Di rilevanza fondamentale è senz’altro l’art. 32 che ritengo opportuno citare per intero: “Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale.

Gli Stati parti adottano misure legislative, amministrative, sociali ed educative per garantire l’applicazione del presente articolo. A tal fine, e in considerazione delle disposizioni pertinenti degli altri strumenti internazionali, gli Stati parti, in particolare:

a) stabiliscono un’età minima oppure età minime di ammissione allimpiego;

b) prevedono unadeguata regolamentazione degli orari di lavoro e delle condizioni dimpiego;

c) prevedono pene o altre sanzioni appropriate per garantire lattuazione effettiva del presente articolo.”

Se la prassi del fast fashion rappresenta una compressione aggressiva dei diritti fondamentali dell’uomo, dei lavoratori e dei fanciulli, non c’è accenno di minore pericolo in materia di impatto ambientale.

Strettamente legato a questa prassi è infatti il fenomeno dell’overconsumption, ossia il consumo il incontrollato o in quantità superiori al necessario di beni non essenziali, che comporta uno sfruttamento continuo delle risorse. A tal proposto ci atteniamo ai dati emersi dal programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) secondo cui l’industria della moda è responsabile per il 20 % dello spreco d’acqua a livello globale e genera il 10% delle emissioni mondiali di anidride carbonica.
Anche sul piano della produzioni di rifiuti la situazione risulta critica. Riportando anche qui i dati dichiarati dalle Nazioni Unite vediamo come il settore tessile occupa nel complesso circa il 5% delle discariche globali, con un tasso di riciclo dei capi dell’1%.
Strumento chiave che potrebbe permettere un cambiamento rispetto questa drammatica situazione, è rappresentato dal Green Deal, un piano di sviluppo votato dal Parlamento europeo nel febbraio del 2021, che si pone come obiettivi quelli di raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro 2050, con l’introduzione di norme più severe sul riciclo, nuove misure contro la dispersione delle microfibre nell’ambiente e standard più severi per il consumo d’acqua.

Alla luce di quanto emerso, in qualità di consumatori abbiamo il dovere di responsabilizzarci: acquistare meno, in maniera più selettiva, e far si che gli indumenti acquistati abbiano una durata media più lunga. Infine sarebbe auspicabile, in alternativa all’acquisto nei grandi store dei brand di fast fashion, preferire indumenti second hand o made in Italy, sincerandoci della trasparenza delle società da cui compriamo.

 

*ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE PER IL MESE DI FEBBRAIO del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata


Sitografia

https://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/libreria/fascicolo_diritti_umani.pdf

https://www.fondazionesvilupposostenibile.org/wp-content/uploads/dlm_uploads/LItalia-del-Riciclo-2019.pdf

https://www.abenergie.it/blog/2021/04/danni-ambiente-fast-fashion

https://www.leggiscomodo.org/panni-sporchi-coscienza-pulita-fast-fashion/

https://www.savethechildren.it/sites/default/files/files Convenzione_ONU_20_novembre_1989.pdf

https://www.lifegate.it/longform/moda-futuro

https://www.globalslaveryindex.org/2018/findings/highlights/

 

 

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