DIRITTO DI REPORTAGE- Il lungo cammino per la libertà: Viaggio in Birmania

3^ PUNTATA- La vita cittadina di Mandalay è qualcosa di difficile da immaginare. Il cuore della città, che conta quasi due milioni di abitanti, è un brulichio di macchine, motorini, luci, negozi. Un mix tra Bombay, Napoli e Rio de Janeiro. Ma la vita cittadina non è la vita di una metropoli occidentale, non si vedono persone che corrono freneticamente al lavoro o in fila al semaforo.

Provate a immaginare ad un groviglio di macchine, moto che suonano e soprassano ovunque, senza incroci né rotatorie nè (salvo pochissimi) semafori; provate poi a pensare che tra questo groviglio passano in continuazione- al posto dei nostri autobus- autocarri carichi di persone aggrappate ovunque, persone scalze cariche di prodotti dell’agricoltura, monaci, bambini di 3-4 anni che corrono da soli e ogni tanto qualche militare armato di mitraglia e sguardo buio.

L’impatto è molto forte e confuso. Appena ti sposti dal cuore pulsante della città, di nuovo villaggi con case di bambù al bordo della risaia, mucche e capre che si alternano a macchine e moto, bambini che chiedono le offerte per le feste religiose che si svolgono in questa o quella zona che ti bloccano la macchina festanti e urlanti. Sul fiume Aramapura c’è il ponte in tek più lungo del mondo, quasi 1,4 km, ed un tramonto difficile da dimenticare. Visitiamo anche la cittadina di Aavà, posta su un affluente del fiume Aramapura, trasportati sul un carretto a cavallo con ruote chiodate per sgommare nel fango tra i banani e le piantagioni di riso.

L’economia qui in Birmania sembra essersi fermata a oltre 100 anni fa e nei villaggi la situazione è ancora 

peggiore. Ci sono migliaia di negozietti attaccati alla baracca-casa in bambù o legno, che vendono prodotti alimentari e agricoli. Viene da chiedersi chi venda a chi, dal momento che turisti in queste zone non ve ne sono, e che gli abitanti dei villaggi sono molto poveri. Si capisce che di fatto c’è ancora un’economia di scambio al limite del baratto, in cui all’interno del villaggio ognuno vende qualcosa a qualcun’altro che a sua volta ne vende altra, e così si muove l’economia rurale.
Quando arriva uno stranieri decine di bambini cercano di vendere dei piccoli prodotti dell’artigianato locale, e sono felici anche solo se gli dai una caramella. Non parliamo di una penna o di una matita per scrivere e disegnare. Non credo sappiamo cosa sia un telefonino. Chiedere ai nostri bimbi di quell’età che a volte uno non gli basta!

Attraversiamo un barcone il fiume Eawady, e visitiamo il villaggio Mingun, facendo la toccante esperienza di visitare una casa di riposo per anziani.

Non sono abituati ai turisti, e un gruppo di fotografi rappresenta un momento di festa. Ognuno ha il suo letto, con le poche cose accatastate in torno e una storia da raccontare scritta negli occhi. Nessuno lesina un sorriso e molti grazie.

Lasciamo Mandalay alla volta di Kalaw, tappa obbligata per raggiungere Lago Inlay, non prima di aver dato un’occhiata al multiforme mercato cittadino.

Durante il tragitto visitiamo una piantagione di cotone e assistiamo alla lavorazione di bronzo, seta e arazzi.

Per superare la stanchezza delle quasi 8 ore di viaggio, provo a masticare un po di Betel. Una foglia avvolta con dentro tabacco e un pezzo di calce, che gli uomini birmani hanno sempre in bocca sputando di continuo di un rossastro vivo assai poco invitante. Finalmente arriviamo, dopo aver scalato tornanti di strada sterrata che si alterna a strada appena battuta.

Kalaw è una cittadina di montagna assai bizzarra. Rilanciata come meta turistica da e per gli inglesi all’epoca dell’imperialismo coloniale, è un mix tra pini e palme, tra Cortina e la Birmania. Costruzioni con i tetti spioventi, come se dovesse nevicare da un giorno all’altro. E temperatura assai più fresca, in maglietta cioè finalmente non si sudava!
Finalmente non ci sono zanzare ovunque. Nei precedenti giorni ho scoperto l’importanza di avere un geco in camera da letto. Superato il normale schifo, rifletti sulla sua utilità nel tenere lontane le zanzare e diventa subito tuo amico.

Il giorno dopo si riparte alla volta di Lago Inlay, un posto davvero fatato. Si lasciano le valige sulla sponda e si sale su una barca simile ad una gondola, spinta da un motore da motozzappa che fa un rumore terribile almeno quanto il fumo nero che emana. Il Lago è enorme, e la vita all’interno del lago si svolge lontano dal mondo su piccoli villaggi di palafitte di bambù, orti galleggianti dove vengono coltivati i migliori pomodori della Birmania e moltri altri ortaggi, e pescatori con le nasse ormai buoni solo per fare foto meravigliose. Visitiamo una manifattura di loto, con cui vengono fatti dei tessuti più pregiati del cotone. Straordinario vedere come in questo paese dietro ad ogni piccolo oggetto per noi comune, via sia il lavoro paziente e difficilissimo di centinaia di persone. Non esiste la fabbrica. Non esiste la catena di montaggio. Ogni persona ha il suo ruolo all’interno del villaggio. Il villaggio è la catena di montaggio di se stesso.

La strada verso la libertà, per come la intendiamo noi occidentali, è ogni giorno sempre più lontana, come le strade che percorriamo quotidianamente (che poi di fatto sono due o tre che attraversano tutto il Paese).

Ma ogni giorno più forte mi cresce una domanda: ma siamo sicuri che non sia la loro, piuttosto, la vera libertà? Liberi dai bisogni che ogni giorni crescono e ci attanagliano, ci stringono in una morsa che se non stai al passo ti taglia fuori e ti fa sentire povero. Qui sono tutti poverissimi, ma la sensazione è che quando riescono a sopravvivere e sfamare i figli, ecco, quella sia già la vera libertà. E la felicità. E avanza sempre del denaro da offrire ai monaci come offerta per il Buddha.

T.R.

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