Anna Maria Franzoni ammessa alla detenzione domiciliare

SCONTERA’ IL RESTO DELLA PENA A CASA, ANCHE SE NON POTRA’ TORNARE A COGNE

di Alessia Rondelli (praticante avvocato presso lo studio legale RPC)

BOLOGNA, 29 GIUGNO 2014- Sono passati più di 12 anni da quel tragico 30 gennaio 2002 quando in una villetta nella frazione di Cogne venne ritrovato il corpo del piccolo Samuele Lorenzi. Il caso ebbe un fortissimo impatto mediatico e dopo 6 anni venne  concluso nel maggio del 2008 con la decisione definitiva della Cassazione della colpevolezza della madre del bimbo, Anna Maria Franzoni. La donna fu condannata a 16 anni di reclusione ed è di pochi giorni fa la notizia dell’accoglimento della sua richiesta di detenzione domiciliare dopo 6 anni effettivi di carcere. Pertanto la donna sconterà il resto della pena a casa, tra i suoi familiari, con il divieto assoluto imposto dai giudici di fare ritorno a Cogne. La riserva è stata sciolta dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna dopo la valutazione degli atti prodotti dalla difesa all’udienza del 24 giugno scorso. In particolare molto si è giocato sulla perizia psichiatrica effettuata dal professor Balloni che ha escluso il rischio di recidiva: “Dopo poco più di 12 anni dal fatto si può sostenere che non vi sia il rischio che si ripeta il figlicidio”. Nella perizia si parla di una residuale pericolosità sociale (non specifica, ma generica) che può comunque essere contenuta grazie all’apporto della famiglia e con una terapia psichiatrica di sostegno. L’altro elemento che ha pesato sulla decisione riguarda il contesto familiare coeso visto come un elemento di sostegno nel percorso di risocializzazione della donna, che dovrà proseguire il suo lungo percorso di psicoterapia. Si fa poi anche riferimento al lungo periodo di libertà vissuto dalla Franzoni, tra la custodia cautelare e la carcerazione quando la condanna è diventata definitiva, senza il verificarsi di alcun problema. Notizie come questa scatenano le più disparate reazioni dell’opinione pubblica in particolare riguardo all’utilizzo da parte della giustizia italiana di ‘due pesi e due misure’. In particolare si assiste ad una crescente ritrosia da parte dei Tribunali di Sorveglianza alla concessione delle misure alternative alla detenzione, mettendo in discussione quella che è la funzione principe della rieducazione della pena. Sembra che chi risulti essere condannato a pene detentive brevi, anche per reati di lieve entità, debba fornire un quadro di elementi tale da poter far escludere il minimo dubbio circa l’attuale pericolosità e la retta condotta di vita. È assolutamente vero che per accedere ad una misura alternativa occorre verificare la sussistenza dei requisiti specifici, ma questo non può richiedere una prova quasi diabolica. L’esclusione del pericolo di commissione di altri reati deve essere valutata nel concreto contesto del singolo caso rispetto anche alla gravità del reato per cui si è stati condannati. Tutto ciò mentre si assiste, all’opposto, all’introduzione nel nostro ordinamento delle cd pene principali non detentive, della messa alla prova e altre misure volte al miglior adeguamento dell’espiazione della condanna. L’importanza del reinserimento sociale va supportata dall’utilizzo di meccanismi che ne agevolino concretamente l’attuazione, che richiedono un’attenta valutazione del caso concreto e non invece negati al minimo dubbio senza adeguata motivazione.

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