The Wolf of Wall Street

IL NUOVO FILM DI MARTIN SCORSESE

di Sabina Loizzo

wolf-of-wall-street

The Wolf of Wall Street, il nuovo film di Martin Scorsese con Leonardo Di Caprio, è un viaggio psichedelico nella vita di Jordan Belfort, uno dei broker più matti e sfrenati che siano mai esistiti, un uomo ambizioso e senza scrupoli, capace di scalare le vette più alte di Wall Street e di precipitarvi con la stessa velocità, in un saliscendi turbinoso su montagne russe fatte di eccessi, droghe, sesso, soldi, lusso e ogni altra sregolatezza vi venga in mente. Basata sull’omonima autobiografia di quello che fu il “lupo” di Wall Street, la quinta collaborazione tra il regista newyorkese e l’attore californiano è forse una delle prove più grandi per entrambi, il cui funambolismo riporta Scorsese al suo apice stilistico e regala a Di Caprio un ruolo da mattatore in cui non poteva che eccellere, dimostrando in pieno quelle doti di grande attore che ormai solo l’Accademy si ostina a snobbare.

Il film parte dalla metà degli anni Ottanta, quando un ventiseienne Jordan Belfort comincia a lavorare a Wall Street. L’obiettivo di quel giovane ambizioso è uno solo: diventare schifosamente ricco. A introdurlo nel mondo degli affari e di quegli essere senza pietà che sono i broker ci pensa un fantastico Matthew McConaughey, che invecchiando non solo dimagrisce che neanche con tisanorreica, ma diventa anche più bravo e figo. Nei panni del mefistotelico capo del giovane Belfort, McConaughey fa sua la scena – una delle più belle del film – e spiega al novellino come funzionano le cose: in un mare pieni di squali, tanto per restare sulle metafore animalesca, conviene affilare i denti e cominciare a squartare se non si vuole essere divorati. Peccato che proprio quello stesso giorno, il famoso lunedì nero, la borsa non rovini miseramente su se stessa causando il licenziamento istantaneo di Jordan.

Determinato a non abbandonare il suo obiettivo, Belfort si fa assumere come agente di cambio, dimostrando tutta la sua bravura di venditore di azioni, capacità innata che ben presto lo porta al passo successivo. Insieme al suo vicino di casa, Donnie Azoff, invidioso della sua vita, pazzo come lui, se non di più, e deciso a seguirlo lungo la via del dollaro frusciante, Jordan si mette in proprio e apre una società di brokeraggio, la Stratton Oakmont, con la quale si arricchisce trattando principalmente Penny Stock, aziende non quotate a Wall Street ma che garantiscono un guadagno più elevato. Cacciato dalla porta principale, Belfort rientra nel mondo della finanza dal retro e lo fa fregandosene delle regole, delle leggi, dei limiti. Diventa un lupo, corrotto, manipolatore, ma incredibilmente ricco, destreggiandosi in quella che era una vera e propria giungla. Sono gli anni ‘80, baby. L’escalation di Belfort sembra inarrestabile, così come inarrestabile è la sua sete di soldi, sesso, qualuude e droghe varie, festini tali che quelli di Una notte da leoni “gli spicciano casa”, macchine, potere e ancora soldi.

La sua è una ricchezza sfrontata, senza vergogna, indecente, quella ricchezza possibile solo in quegli anni, in cui uno yuppie poteva buttare letteralmente soldi al vento o nel cestino della cartastraccia, sprezzante e incurante di tutto. Scorsese ritrae un’epoca spregiudicata così vicina a noi da sentirne ancora le sferzate sulla schiena – mai sentito parlare di crisi in questi ultimi anni? – ma la sua operazione non ha alcuno intento moralistico, sentimentale o didascalico. Martin si libera dei freni inibitori nella regia con la stessa facilità con cui Jordan si leva i pantaloni di fronte alla biondissima moglie Naomi. E a Martin piace. Piace talmente tanto che il risultato è stupefacente. La società di Belfort è il teatro di un delirio generazionale dove, forse ancora più di oggi, tutto sembrava essere in vendita, anzi non esserlo voleva dire farsi tagliare fuori. Eppure, per chi guarda il film ciò che conta in quel momento non sono critiche e filosofeggiamenti vari, non ci pensa proprio, talmente preso com’è dallo stupore per quella società degli eccessi che Scorsese gli serve su un piatto d’argento. E allora via a nani lanciati in aria, una scimmia in ufficio, l’arrivo della banda in mutande, copule nei bagni, tette al vento e fiumi di oscenità e scurrilità varie. Il regista da vita a un teatro dell’assurdo osceno lasciandolo libero di esprimersi da solo, evidenziandone i toni sopra le righe, accentuandone i colori, gli odori, i sapori, mettendo sotto i riflettori l’enorme superficialità e ingordigia di quegli anni. Con una ricerca stilistica che lo porta a usare registri tra i più vari in maniera quasi orgiastica, tanto in linea con la storia raccontata, ma che comunque grida a gran voce la sua impronta, Scorsese fa esplodere quel mondo cotonato, finto perbenista e totalmente privo di etica, per mostrarci l’enorme baratro che vi i nasconde dietro, lasciandoci increduli, meravigliati, attoniti, terrorizzati.

Le tre ore di film sembrano volare mentre veniamo divorati dall’uragano Jordan Belfort. Di Caprio è uno spettacolo e sembra vincere facile nei panni del broker; in realtà Leo è un attore talmente grande che questi ruoli in cui può dare sfogo al lato più istrionico della sua arte sono la conferma di un talento che non è più possibile né appropriato ignorare. Diretto da Scorsese, Leo è perfetto. Allora Accademy, glielo diamo questo Oscar? Tutto il cast, poi, è assolutamente convincente, dal già citato e allucinato Matthew McConaughey all’ottimo Jonah Hill, che qui si gioca alla grande tutte le sue carte per l’Oscar come attore non protagonista, passando per Kyle Chandler, perfetto nel ruolo dell’agente FBI Denham, la bellissima Margot Robbie, novellina ma che sa il fatto suo, e Jean Dujardin, che di banchieri belli così in Svizzera non credo ne abbiamo mai visti.

Infine, quando la strada lastricata di dollari di Jordan si trasforma in una parabola discendente e arrivano i guai con quelli del FBI, la caduta è altrettanto vertiginosa quanto la salita e sul finire lascia ammaccati, doloranti e con uno strano, indesiderato, retrogusto amaro in bocca. La scena finale, dove un Belfort fresco di carcere si ritrova a insegnare come ottenere il successo a un platea di creduloni che pende dalle sue labbra, è scomoda e destabilizzante. Per un attimo avevamo creduto Scorsese volesse chiudere sull’immagine del broker sui campi da tennis della sua prigione a cinque stelle, in un tentativo di ristabilire l’equilibrio che il film aveva stravolto più e più volte, una sorta di catarsi in cui credere che una qualche giustizia esiste. E invece no, ormai avremmo dovuto capirlo che non è quello lo scopo del regista. Scorsese si rifiuta di dare un qualche monito etico, di chiudere il cerchio e ripristinare l’ordine; ciò che vuole davvero è spiattellare gli eventi così come sono, rigettare la realtà delle cose e la loro verità molesta addosso al pubblico.

The Wolf of Wall Street è una pellicola controversa, eccessiva, per certi versi repellente, immorale per altri, ma è anche un film coraggioso, impudente, spregiudicato, gioioso a tratti e grottesco in altri, goliardico, libero, sfrenato e senza regole, capace di bassi clamorosi a livello narrativo, ma di raffinatezze di stile da outstanding. In una sola parola, epico.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Back To Top