Processo Polenghi: il fotoreporter è stato ucciso dall’esercito thailandese

BANGKOK, 29 Giugno 2013 – Dopo tre dalla tragedia, il Tribunale di Bangkok si è finalmente espresso sul processo Polenghi: il fotografo italiano è stato ucciso da un proiettile dell’esercito Thailandese, impegnato in uno scontro a fuoco con le camicie rosse. Nessun responsabile è stato tuttavia individuato dalla Corte come diretto responsabile della la morte del fotoreporter.

L’assedio delle camice rosse – Era il 19 Maggio 2010, quando Fabio Polenghi, fotoreporter italiano di 48 anni, è rimasto ucciso nello scontro tra esercito e ribelli in Thailandia. Fu trafitto alla schiena da un proiettile ad alta velocità di fucile M16, in dotazione all’esercito Thailandese. Il fotografo stava seguendo la ritirata delle camicie rosse che avevano assediato il centro di Bangkok per due mesi. La protesta antigovernativa ha causato ben 91 morti e 2mila feriti.

Nessun responsabile – Secondo la sorella di Fabio Polenghi, Elisabetta, si tratta di un verdetto positivo, ma non risolutivo, in quanto non individua nessun responsabile per la morte del fratello. «Non è una sentenza che mi mette il cuore in pace, semplicemente posticipa il problema. Non provoca nessun danno all’esercito», ha concluso Elisabetta Polenghi. In effetti, nessun militare è stato condannato per aver ucciso il giornalista, tuttavia, la famiglia potrebbe riaprire un nuovo processo a proprie spese di fronte alla Corte di Bangkok sud.

Il problema politico – L’attuale governo thailandese è guidato dal luglio 2011 da Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex premier autoesiliatosi Thaksin, sostenuto dal ceto povero rurale che componeva l’ossatura del movimento rivoltoso delle «camicie rosse». Per i fatti del 2010, l’esercito – che sosteneva la monarchia in opposizione dell’attuale governo- ha sempre sostenuto di non aver ucciso nessun civile. Quello dei giornalisti o fotoreporter che lavorano in zone di conflitto è un problema politico oltre che tecnico. Generalmente agli addetti a questo mestiere non è offerta alcuna protezione da parte dello Stato interessato, poiché i documentari e le foto scattate dipingono spesso le atrocità messe in atto dall’esercito governativo nei confronti dei ribelli e dei civili. Basti pensare alla Siria: il governo di Assad non ha alcun interesse affinché i giornalisti siano protetti nel suo paese, per documentare i massacri compiuti dall’esercito governativo. Questo è accaduto un po’ per tutta la primavera araba, durante la quale sono morti diversi giornalisti e fotoreporter senza che fosse cercato alcun responsabile.

 

CLARISSA MARACCI

 

 

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