Processo Cucchi: Stefano è morto per malnutrizione

DEPOSITATE LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO PER LA MORTE DEL GIOVANE ROMANO NEL 2009

-di avv. Valentina Copparoni (RPC Studio Legale di Ancona) 

stefano_cucchi_jpg 08 settembre 2013-L’8 giugno scorso si è chiuso il processo di primo grado per la morte del romano Stefano Cucchi e il 3 settembre sono state depositate le motivazioni della sentenza di chiusura del processo con la quale sono stati condannati per omicidio colposo il primario Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché assolti gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
188 pagine in cui la causa del decesso di Cucchi è indicata nella malnutrizione, nello specifico nella c.d. “sindrome da inanizione”
La Corte d’Assise di Roma ha ritenuto di accogliere in pieno le conclusioni formulate dai periti nel corso del giudizio “fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d’indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore” ritenendo la “sindrome di inanizione” l’unica in grado di fornire una spiegazione dell’elemento più appariscente e singolare del caso in esame e cioè l’impressionante dimagrimento cui è andato incontro Cucchi nel corso del suo ricovero”.
”Al contrario -continua la Corte- la tesi, sostenuta dalle difese degli imputati, secondo cui il giovane sarebbe stato condotto all’exitus da morte cardiaca improvvisa, non
fornisce alcuna spiegazione della grave perdita di peso corporeo subita da Stefano Cucchi ma anzi si fonda, in contrasto con le risultanze probatorie (il peso di 52 kg registrato all’ingresso in carcere), sull’errato assunto che il peso corporeo di Cucchi in realtà fosse intorno ai 40 kg”.
La Corte continua sostenendo che ”ancor meno convincenti sono le conclusioni dei consulenti delle parti civili secondo cui il decesso si sarebbe verificato a causa delle lesioni vertebrali che, interessando terminazioni nervose, avrebbero dato origine ad una sintomatologia dolorosa e che, unitamente ad una “vescica neurologica’”, avrebbero ingenerato, con riflesso vagale, l’aritmia cardiaca consistente in una brachicardia da ritmo giunzionale la quale si sarebbe a sua volta inserita causalmente nel determinismo della morte. Anche questa tesi presta il fianco all’insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali in questione abbiano interessato terminazioni nervose”.
Il decesso di Stefano Cucchi, quindi, è imputabile alle condotte dei medici ”contrassegnate da imperizia, imprudenza e negligenza sia per la omissione della corretta diagnosi, non avendo i sanitari individuato le patologie da cui era affetto il paziente, in particolare tenuto conto del suo stato di magrezza estrema, sia per avere trascurato di adottare i più elementari presidi terapeutici che non comportavano difficoltà di attuazione e che sarebbero stati idonei a evitare il decesso, sia per avere sottovalutato il negativo evolversi delle condizioni del paziente che avrebbero richiesto il suo urgente trasferimento presso un reparto più idoneo”.
Inoltre la Corte d’Assise esclude il reato di abbandono di incapace. I fatti descritti nel capo d’imputazione, infatti, «non consentono di ravvisare il reato di abbandono d’incapace, del quale non ricorre alcuno dei presupposti oggettivi nè soggettivi, ma quello di omicidio colposo. (…) “È sufficiente fare richiamo, per escludere la ricorrenza della fattispecie di abbandono d’incapace alla circostanza che praticamente tutti i testi esaminati hanno negato che Cucchi, quantunque gravemente sofferente, fosse portatore di una ridotta capacità psichica”.
Ma la sentenza va oltre parlando anche della condotta dei carabinieri che arrestarono Stefano ritenendo “legittimo il dubbio che Stefano Cucchi, arrestato con gli occhi lividi e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri”. Episodi, quindi, che secondo la ricostruzione dei fatti, sarebbero avvenuti al momento dell’arresto di Cucchi e prima della sua consegna agli agenti di polizia penitenziaria per il trasferimento nelle celle sotterranee del Tribunale di Roma dove si sarebbe svolta la convalida dell’arresto per droga.

Sul punto, in particolare, la Corte parla di un comportamento “anomalo” collocabile “nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare (verso le due di notte) e l’arrivo della pattuglia automontata (intorno alle 3,40), dovendosi ragionevolmente escludere che atti violenti fossero stati posti in essere dal carabiniere Colicchio (che chiamò il 118 perché Cucchi non stava bene) o dai carabinieri della pattuglia che si erano limitati ad effettuare il trasferimento dell’arrestato da una caserma all’altra”.
Ed ancora ”in via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa, mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente abitava”.

 La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, da anni in prima fila per ottenere giustizia per il fratello, ha commentato “Questa sentenza è una pietra tombale sulla morte di mio fratello. Questa è una tipica sentenza italiana. Smonta l’impianto accusatorio della Procura e per quanto riguarda il pestaggio si ipotizza che possa essere stato compiuto dai carabinieri senza però trasmettere gli atti ai pm per fare indagini”.

Vi consigliamo la visione del film-documentario “148: i mostri dell’inerziache ricostruisce proprio gli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi, quelli su cui anche il processo di primo grado ha cercato di fare luce.
La regia è di Maurizio Cartolano, da un un’idea di Giancarlo Castelli, prodotto da Simona Banchi e Valerio Terenzio per Ambra Group, con il patrocinio di Amnesty International e Articolo 21.
Il titolo deriva dal fatto che il giorno della morte, 22 ottobre 2009, Stefano è la 148esima persona deceduta all’interno di un carcere italiano; il film-documentario si sviluppa attraverso la voce e le immagini di Stefano, le testimonianze, i filmini della famiglia, le lettera scritte da Stefano, le parole del padre e della sorella che ricordano un figlio ed un fratello tra dolore e rabbia che più che nelle loro parole si mostrano nei loro occhi, nella loro voce e nelle loro mani tremanti, spesso inquadrate. Ilaria, diventa quasi una co-protagonista della storia che guida per mano gli spettatori nella difficile ricostruzione della vicenda del fratello.
E’ un racconto umano in cui Stefano è il protagonista con le sue fragilità ma anche i suoi sorrisi durante una festa di compleanno in famiglia, quella stessa famiglia che pur nei momenti più oscuri, di riprese e ricadute, gli è stata sempre accanto con amore ma a volte anche con durezza per cercare di impedirgli di buttare via se stesso e con lui un pezzo delle loro vite.
Il documentario, come il libro scritto da Ilaria, “Vorrei dirti che non eri solo”, ripercorre su due piani paralleli la vita di Stefano e della sua famiglia e gli ultimi giorni di vita del ragazzo in quel mese di ottobre 2009. I piani sono paralleli ma alla fine si incontrano, purtroppo però si incontrano dove mai dei genitori ed una sorella vorrebbero ossia in un obitorio dove il cadavere irriconoscibile di Stefano viene mostrato alla famiglia in tutta la sua inaccettabile durezza. La lettura del libro ( si veda il focus dedicatogli al link http://www.fattodiritto.it/focus-diritto-cultura-%E2%80%9Cvorrei-dirti-che-non-eri-solo%E2%80%9D-ilaria-cucchi-racconta-suo-fratello/) è stato un pugno allo stomaco e lo stesso la visione del film; le pagine di quel libro sono state tradotte in immagini ed interviste che, come il libro, mi hanno lasciato tante domande, forse troppe.
Un atto di denuncia, di richiesta di verità e giustizia non solo per Stefano ma anche per le famiglie di tanti altri detenuti che sono morti quando si trovavo nelle mani dello Stato.

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