Nike: tra il dire e il fare c’è di mezzo il violare

Nike Nike, una multinazionale made in…..? Tutti conosciamo la Nike, Inc. É uno dei più noti marchi commerciali del settore calzaturiero e tessile sportivo, presente sulla scena internazionale da più di vent’anni. Ad oggi possiede la Converse Inc., la Umbro Ltd., la Cole Haan e la Hurley International LLC. Con un fatturato che si aggira intorno ai 23 miliardi di dollari e più di un milione di persone impiegate in tutto il mondo, la Nike è definibile una vera e propria multinazionale. Come facilmente intuibile, soltanto una minima parte della produzione ha sede nei paesi europei o negli Stati Uniti. Essa si concentra sopratutto nella regione asiatica, in particolare in Cina, Indonesia, Vietnam, Thailandia e Malesia. Il basso costo della manodopera unita alla limitata legislazione in materia di lavoro propria di questi stati, hanno fatto sì che molte multinazionali trasferissero un’ampissima percentuale della loro produzione in questa parte del mondo, magari affidandosi a ditte fornitrici o a subappaltatori che, nella maggior parte dei casi non sono di proprietà della multinazionale stessa. É questo il caso della Nike, la quale mantiene importanti contatti commerciali con colossali realtà produttive asiatiche alle quali delega la realizzazione della maggior parte dei suoi prodotti, ma delle quali non è proprietaria. Non serve che l’azienda americana fornisca, come tanti si auspicano, una lista dettagliata contenente i nomi delle aziende fornitrici asiatiche; basta dare un’occhiata alle etichette dei prodotti a marchio Nike in vendita in tutto il mondo per scoprire dove vengono realizzati. Il consumatore medio, che acquista indiscriminatamente marche sportive di ogni genere e provenienza, non si è mai chiesto in che modo sonoo realizzati i prodotti immessi sul mercato con lo swoosh, ovvero il famoso baffo simbolo della Nike, o meglio, non si è mai interrogato sulle condizioni in cui migliaia di operai asiatici sono costretti a lavorare.

La responsabilità sociale d’impresa – Prima di compiere una dettagliata panoramica sulle violazioni che hanno luogo in aziende fornitrici o subappaltatrici della multinazionale statunitense, è bene accennare a un concetto di recente definizione, ossia quello della responsabilità sociale d’impresa (RSI). Intesa oggi, a parere di chi scrive e nella maggior parte dei casi, più come uno show off  delle capacità dell’azienda di organizzare discorsi pieni di pompose parole piuttosto che di contenuti significativi, la responsabilità sociale d’impresa è stata istituzionalmente definita come un principio la cui formulazione risponde alla necessità di regolare la condotta dell’azienda nei confronti dei soggetti che con il suo stesso agire influenza. Va da sé che la necessità di emettere con una certa regolarità dei documenti a testimonianza della RSI, i cosiddetti report, sia direttamente proporzionale alla grandezza dell’azienda, nonché al fatturato realizzato ogni anno. In merito a questo tema, è necessario sottolineare che la Nike aderisce dal luglio del 2000 al Global Compact, una piattaforma online promossa dalle Nazioni Unite che prevede la collaborazione di un variegato ventaglio di figure che va dall’ente urbano all’azienda multinazionale, al fine di dare attuazione e implementazione a dieci principi elaborati in materia di diritti umani, lavoro e ambiente. Considerato come la più vasta iniziativa di RSI, il Global Compact provvede a diffondere delle precise linee guida che tutti i membri devono seguire al fine di mantenere il loro status di appartenenza a tale iniziativa.

I codici di condotta, tra il dire e il fare c’è di mezzo lo sfruttamento Affiancata a questa dimensione più esterna e ufficiale, ve n’è un’altra più nascosta, che molto spesso passa in sordina: l’elaborazione dei report interni all’azienda e dei codici di condotta, ossia quei documenti destinati a chi, con il lavoro dell’azienda, ci vive. Per capire il divario esistente tra il contenuto dei report elaborati in seno alla multinazionale e ciò che si verifica nella realtà è sufficiente pensare che Nike ha elaborato due codici di condotta diversi, l’uno – dal nome inside the lines – destinato ai lavoratori impiegati negli stabilimenti con sede negli Stati Uniti, l’altro –in formato tascabile, contenutisticamente molto scarno e discutibile- per coloro che invece lavorano nelle aziende asiatiche. Come multinazionale di spicco, l’azienda americana è tenuta, ma non vincolata da leggi specifiche, a far rispettare i contenuti di tali codici di condotta a tutti i suoi fornitori o subappaltatori, se non altro perché i prodotti realizzati verranno poi immessi sul mercato con il marchio Nike. Grazie all’impegno congiunto di soggetti privati e Organizzazioni non governative (ONG), la realtà delle sweatshops, le aziende di produzione, è stata finalmente svelata mostrando la reale differenza esistente tra il contenuto dei codici di condotta e ciò che effettivamente ha luogo negli stabilimenti. É il caso, ad esempio, della Yue Yuen o della Wellco, oggetto di approfondite inchieste effettuate nell’ambito di una campagna per i diritti del lavoro di qualche anno fa. Gli operai, per paura di rappresaglie da parte del management dell’azienda, furono intervistati in luoghi esterni all’azienda stessa. Sono state riscontrate molteplici violazioni della Chinese Labour Law sopratutto in materia di salari, ben inferiori rispetto al minimo stabilito, di ore lavorative straordinarie non opportunamente retribuite e di impiego di manodopera minorile all’interno degli stabilimenti. Data l’ampia ripercussione che tale genere di rivelazioni aveva avuto a livello di opinione pubblica, Nike aveva deciso di assumere Andrew Young, con il preciso compito di visitare gli stabilimenti oggetto dell’inchiesta al fine di saggiare la veridicità delle informazioni diffuse. Come prevedibile, le conclusioni alle indagini svolte da Young differivano completamente da ciò che era stato detto dagli operai. Questo accadde perché la persona incaricata da Nike si era relazionato sì con gli impiegati degli stabilimenti ma, per problemi linguistici, era sempre stato accompagnato da membri dei comitati direttivi degli stabilimenti stessi che in quell’occasione avevano funto da traduttori. Traducendo nella maniera che più sembrava loro consona al fine di offrire un ritratto dell’azienda eticamente più integro possibile.  Altre inchieste svolte da Oxfam Australia all’interno di fornitori siti in Thailandia e Malesia hanno portato alle medesime conclusioni: i lavoratori erano obbligati a fare numerose ore di straordinario tutti i giorni e, molto spesso, erano oggetti di minacce e ritorsioni da parte dei vigilanti delle aziende. Nello stabilimento malese della Hytex venne addirittura girato un video, trasmesso dalla tv australiana, in cui venivano mostrate le condizioni disumane in cui gli operai sono costretti a vivere, nonché i ritmi di lavoro massacranti che erano obbligati a sostenere. Infine, vale la pena accennare a un altro grande limite insito nelle legislazioni di molti paesi della regione asiatica. Si tratta della mancanza di riconoscimento legale delle associazioni di lavoratori, come testimonia l’inchiesta di Vietnam Labour Watch. Realizzata presso la PT Doson, fornitrice di Nike e di tante altre multinazionali del settore sportivo, è stata una delle prime aziende in cui fosse permesso fondare e aderire ad associazioni sindacali. Una libertà tuttavia apparente perché nel momento in cui lo stabilimento è stato chiuso, gli operai che lavoravano al suo interno facenti parte di rappresentanze sindacali sono stati ostacolati in tutti i modi per trovare una nuova occupazione. Inoltre, diverse fonti confermano che dal 1998 al 2005 la Nike ha sensibilmente diminuito le commesse verso quei paesi in cui le associazioni dei lavoratori venivano legalmente riconosciute. In molte occasioni, la multinazionale statunitense ha preferito astenersi dal commentare le accuse che a più riprese le sono state rivolte, limitandosi ad esternare l’intenzione di indagare in maniera più approfondita sulle vicende. Nell’ambito della campagna Clean Clothes, Nike e altre multinazionali hanno apposto la loro firma su un documento redatto in Indonesia, il cui tema principale era proprio la concessione della libertà di fondazione e adesione ad associazioni sindacali. Era il 2011. A scanso di equivoci è bene sottolineare che le informazioni sopra riportate possono essere riferite a tante altre imprese multinazionali come Adidas, Reebok, New Balance, ecc… Questi sono nomi che compaiono tante volte nei report di Oxfam Australia, a testimonianza che la continua violazione dei diritti dei lavoratori non è una realtà che appartiene esclusivamente a Nike.

Cambiare? Basta volerlo – Sino ad oggi non sembra sia stato fatto molto; c’è bisogno dell’azione sinergica e congiunta dei governi asiatici e delle multinazionali stesse affinché possano verificarsi cambiamenti effettivi e positivi, da una parte a livello legislativo, dall’altra a livello esecutivo. Se si pensa a quanto denaro queste aziende investono nella pubblicità o nelle sponsorizzazioni, viene anche da chiedersi perché parte di questi ingenti somme non venga destinata alla risoluzione di queste situazioni moralmente inaccettabili. In tanti sono convinti che non ci siano soluzioni alla portata del singolo individuo. In tanti sbagliano a pensarla così: basta ricordare che il primo fattore di successo di una multinazionale è il consumatore; e se ci astenessimo dall’acquistare prodotti a marchio Nike?

LENNELLI CORINNA

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