DIRITTO DI REPORTAGE- Il lungo cammino per la libertà: Viaggio in Birmania

2^ PUNTATAObama was here. E a Yangoon serpeggiava un certo entusiasmo in vista della sua visita ufficiale in Myanmar. I giornali di oggi hanno stampato splendide foto di Obama che abbraccia e bacia Aung San Suu Kyi.

Davvero occidentalizzazione e libertà stanno per fondersi in un abbraccio di modernità nella terra birmana.

Ma nelle campagne la situazione è completamente diversa.

Visitiamo la celebre Roccia Dorata di Monte Kyaiktiyo, in bilico sulla terra in una maneira che pare sfidare le leggi della fisica, dopo una salita allucinante a bordo di un autocarro scoperto con oltre 60 persone a bordo e un autista folle che semina tornanti di una salita ripidissima. E la seconda parte si procede solo a piedi o con le portantine per i più comodi.

Il giorno successivo si riparte.

La strada che porta a Taungoo e poi prosegue per Began è una distesa di pianura paludosa, dove le risaie si mischiano a grandi distese di Tek e caucciù. Ogni tanto si intravede un villaggio costruito sulla strada, dove la povertà e l’arretratezza sono impensabili per occhi lontani. Costruzioni simili a palafitte di bambù in genere a bordo fiume, l’acqua si prende da lì; un’agricoltura basata sulla pastorizia e sulle piccole lavorazione artigianali di bambu, tek, caucciù e lacca. In ogni villaggio c’è almeno una pagoda, in genere dorata e ricchissima, dove la gente pur poverissima va a donare i suoi pochissimi averi al Buddha e i Monaci vivono di offerte e rispetto della popolazione.

Ci si ferma e si mangia per strada, in piccoli “bar” che in realtà altro non sono che un annesso delle abitazioni, due panche di legno e tavolino, sporcizia ovunque, piatti e bicchieri lavati in acqua stagnante, e riso cucinato con mille verdure gustosissime e l’immancabile pollo mescolato amabilmente con le mani. Ma c’è una gentilezza e una riverenza deliziosa, non solo nei confronti dello straniero turista, ma anche l’un con l’altro. Il popolo è affabile e gioviale, propenso anche se con difficoltà linguistiche (l’inglese non è pane per i loro denti) al dialogo e alla conversazione. E un sorriso non manca mai.

Il momenti più toccante è la visita ad un orfanotrofio, dove un ex maestro di scuola si dedica a oltre 720 bambini da pochi mesi fino alla maggiore età. Arriviamo al momento del pasto, nella mensa i più grandini distribuiscono il riso ai più piccolini. Solo riso si mangia, e assai di rado un po’ di carne di pollo. Ognuno lava la sua ciotolina nell’acqua corrente, con una compostezza e maturità da uomini e donne grandi. Sono scene che ti entrano nel petto, e urlano silenti di dolore. Il maestro ci spiega con grande serenità che lo Stato non li aiuta affatto, e la struttura si mantiene grazie ai volontari che vi insegnano e alle donazioni che ricevono anche dagli stranieri. I bambini ci salutano con una danza in musica a noi dedicata.

Il maestro, prima di salutarci, mi si rivolge dicendo: “Vi ringrazio perché donate la vita ai miei bambini”. La frase mi colpisce dritto, non posso che rispondergli: “Sono io che ringrazio voi perché ci insegnate la vita”.

Si riparte e dopo molte ore si arriva poi a Began, città dalle oltre 4000 pagode e templi dedicati al Buddha, spettacolo di costruzioni dorate che sorgono ad ogni metro della vasta città.

Vicino ad alcune pagode si scorgono le famose “donne giraffa”, ormai pochissime rimaste e molto anziane, con i loro colli allungati da anni e anni di monili dorati a forma di cono che portano stretti al collo. Fanno una certa pena le donne giraffa, relegate come sono al ruolo di fenomeno da baraccone, oggetto di ammirazione e tante foto.

Ad ogni pagoda decine di ragazzini scalzi, come tutti noi del resto, arrivano a frotte ognivolta che scorgono un occidentale, cercando di vendere oggettini anche carini e cartoline. Spesso ti vien voglia di comprare qualcosa solo per farli contenti, sempre gli regali un sorriso e ti ricambiano in ogni caso.

L’alba a Began, in cima ad una pagoda vale l’attesa iniziata alle 5. Una distesa di pagode che si illuminano ai primi raggi dorati del sole che sorge, e dopo poco si alzano in cielo le Mongolfiere che partono da lì vicino per un tour sulla città, regalando un inestimabile spettacolo di colori e luci.

Da Began ci spostiamo per un paio d’ore verso Monte Popa, dove saliamo il celebre tempio dedicato al Buddha che si raggiunge dopo aver salito 777 gradini ripidissimi, in mezzo ad una coltre di simpatiche scimmie che popolano il templio.

Tempo di una visita, e molte belle foto, e poi si riparte verso Mandalay, la seconda città più famosa e grande della Birmania dopo Yangoon. Si mangia un piatto di noodles pollo e verdure in una sorta di autogrill sull’autostrada, dove con grande stupore tra le macchine vediamo transitare assai educatamente anche una mamma elefantessa con elefantino appresso.

Arrivati alle porte di Mandalay, percorriamo il ponte di Tek più lungo del mondo, l’Amapura, con i suoi oltre 1,4 km. E assistiamo tornando con una barchetta di legno ad un tramonto fantastico che ci accompagna alla fine della prima giornata a Mandalay, che al primo impatto sembra una colorata e confusionaria città del Mediterraneo del sud. L’aria che si respira nelle città, pur nella loro grande aretratezza, è quella- assai diversa dalle campagne- di un Paese che “sta arrivando” e vuole esserci.

T.R.

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