Contro indagine per stabilire la verità sul disastro Moby Prince.

   8 APRILE ’13, ROMA – Quasi 22 anni fa, la sera del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo al largo del Porto di Livorno. L’equipaggio e tutti i passeggeri, ad eccezione di un superstite, radunati nel salone centrale della nave, persero la vita a seguito del rogo successivo allo scontro. Il mozzo napoletano Alessio Bertrand si salvò. La nave, posta sotto sequestro, affondò nelle acque del porto di Livorno il 28 maggio 1998 mentre era ormeggiata alla banchina e venne recuperata in seguito per essere demolita in Turchia.

Di questa tragedia avvenuta nelle nostre acque si è sempre saputo poco e poco se ne è parlato. Tutte le varie indagini si sono chiuse con archiviazioni, giudicate troppo sbrigative, con la conseguenza che dell’incidente che ha causato la morte di 140 persone non si conoscono ancora oggi con esattezza né la dinamica né le responsabilità.

“L’ultimo decreto di archiviazione non ha alcun riscontro nelle carte usate per scriverlo, che anzi affermano l’esatto contrario di quel che sostiene il giudice. Noi ci abbiamo messo nuove tecnologie, ma i documenti sono gli stessi. Siamo ancora qui, a chiedere un’ultima possibilità di avere finalmente giustizia”. In queste parole, la sintesi del tentativo di Angelo Chessa, chirurgo specializzato in ortopedia, rimasto orfano a seguito della tragedia, perché sia il padre Ugo, comandante della Moby Prince, che la madre, Maria Giulia, erano sul traghetto in quella fatidica sera. Nel 1991 aveva 25 anni e stava finendo l’Università a Milano. Apprese la notizia dal tg del mattino, ma non sapeva che a bordo vi fosse anche la madre.

Il Dott. Chessa si è rivolto all’ingegnere Gabriele Bardazza, al quale ha affidato il delicato compito di analizzare e ritrovare nuovi documenti che possano far luce sull’episodio anche con l’ausilio delle ultime tecnologie. Solitamente il suo studio di Milano collabora con i magistrati di Milano e nel 2010 l’ingegner Bardazza ha per la prima volta accettato di lavorare per una parte civile.

A muovere il Dott. Chessa è anche la giustificazione dell’ultima archiviazione: “Una condotta gravemente colposa, in termini di imprudenza e negligenza, della plancia del Moby Prince”. Se la morte estingue ogni reato, la colpa viene però fatta ricadere sul padre: “Le indagini andarono in una sola direzione, la più facile. Troppi interessi da coprire, tra Agip e porto. Tutti ormai riconoscono che si tratta di una specie di Ustica dei mari, nessuno ne parla. Non è più una questione privata. Io mi ribello a un oblio ingiusto”.

Vi sono delle circostanze alle quali non è forse stato dato il giusto rilievo: la presenza di navi militari americane in rada, ossia non attraccate materialmente alla banchina del porto, l’ipotesi di un’esplosione a bordo del traghetto prima dell’impatto, i soccorsi tardivi e maldestri. I fatti non sussistevano, a causa anche di un’inopinata “nebbia d’avvezione”, che ha incardinato il primo processo sull’errore umano.

Dalle vecchie incongruenze si prova a far ripartire l’indagine. La negligenza dell’equipaggio, secondo i giudici, stava nel portellone prodiero aperto, nonostante la normativa Marpol 73-78. Tutto vero, ma quella normativa sarebbe entrata in vigore solo nel 1992 e rivolta alle nuove imbarcazioni, mentre quelle comela MobyPrinceavrebbero dovuto adeguarsi entro il 1995.

Un altro punto chiave è quello legato alla posizione della petroliera Agip Abruzzo: una ripresa girata pochi minuti dopo l’impatto dimostrerebbe che la petroliera si trovava all’interno del triangolo d’acqua all’uscita del porto di Livorno, in divieto alle regole di sicurezza. Sono le stesse coordinate inserite nella sentenza di primo grado a collocarela AgipAbruzzolà dove non doveva essere. Pare che nessuno si accorse di questa incongruenza, sufficiente di per se stessa a fondare una notizia di reato.

La stessa nebbia pare che non ci fosse: in uno dei video si vedono chiaramente i bagliori delle fiamme della Moby Prince dietro la figura della petroliera. Ciò vorrebbe dire che il traghetto non era in uscita, ma rientrava nel porto ed il motivo di quest’inversione rimarrà sconosciuto. Un altro obiettivo dell’indagine è quello di stabilire il numero di navi americane in rada: una sola, ma molto vicina alla petroliera al momento dell’urto, come sembra dimostrare il notevole lavoro sulle comunicazioni radio, dove a parlare in inglese è sempre la stessa persona.

Ad ogni modo, l’unico obiettivo di questa contro indagine che va avanti da tre anni è quello di individuare una diversa soluzione rispetto alla linea dei magistrati, per ottenere un nuovo processo. “A me interessa stabilire una verità storica. Quella tragedia non ha generato nulla, non ha insegnato niente. Centoquaranta morti inutili. Nel nome di una verità di comodo”.

Singolare è che gli articoli del 15 e 16 aprile 1991 de “La Nazione”, conservati dal Dott. Chessa, non siano inseriti nella rassegna stampa allegata agli atti. Il primo fa riferimento al notevole traffico di navi militari registrato al porto in quella notte, il secondo porta questo titolo: “La petroliera non doveva essere lì”.

MOSE’ TINTI

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