Come la corruzione uccide l’economia (parte seconda)

imagesLA GIUBBA DEL RE. OPINIONE AUTOREVOLE DI UNO CHE DELLA CORRUZIONE NE SA ABBASTANZA.

di Avv. Marusca Rossetti

16 febbraio 2014- Ci siamo lasciati la settimana passata, a conclusione della prima parte dedicata all’argomento della corruzione in Italia, chiedendoci se davvero un organismo come l’Authority, in qualunque modo lo si voglia chiamare, potrebbe essere incisivo per debellare un fenomeno tanto diffuso e così capillare da essere penetrato in ogni meandro, anche il più recondito, del nostro Paese.

Questa mattina, mentre mi recavo al Tribunale di Ancona, ascoltando una trasmissione radio, lo speaker di turno si è messo a leggere quelli che furono i titoli delle principali testate giornalistiche italiane del 13 febbraio del 1976 e con ironia, ma neanche troppa, informava coloro che erano sintonizzati che allora, al pari di oggi, si parlava e si controbatteva sul fenomeno delle “bustarelle”, così denominate prima di conoscere l’evoluzione nelle meglio note tangenti.

Dunque veramente viene da dire che in quasi quarant’anni non è cambiato niente…

Stando al rapporto della Commissione Europea del quale ci siamo occupati la volta scorsa, Bruxelles ha accusato l’Italia, tra le altre, di avere una normativa sulla corruzione insufficiente perché “frammenta le disposizioni sulla concussione e sulla corruzione”.
Quindi l’Authority c’è, ma non si vede; la legge penale c’è, ma non si sente.
n realtà, Piercamillo Davigo, magistrato che dal 28 giugno 2005 ricopre il ruolo di Consigliere alla Corte Suprema di Cassazione, II Sezione Penale, più che puntare su un organismo costituito ad hoc suggerisce di convogliare sforzi e risorse su un più rigido rispetto delle regole. E c’è di che fidarsi, vista la sua autorevolezza in materia.
Davigo, infatti, entrato a far parte della Magistratura nel 1978, nei primi anni Novanta partecipò al pool di Mani Pulite, insieme ai colleghi Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Tiziana Parenti e Armando Spataro e tra questi veniva soprannominato il “dottor Sottile”, per via della sua maestria a costruire l’architettura giuridica del castello accusatorio che minò definitivamente una Prima Repubblica già sulla via dell’implosione
E secondo il magistrato mentre “In tutti i Paesi seri chi ruba va in galera. Qui invece sono andati a smontare certi reati per introdurne altri di difficile definizione col risultato che l’obiettivo non pare più colpire i corrotti, ma individuare in quale casella di reato inserirli” così avvalorando quella critica mossa a livello europeo circa la frammentazione di certe fattispecie criminose. Ma a noi che c’eravamo anche chiesti se quando c’è la determinazione di fare sul serio le strade da battere non debbano necessariamente essere altre, indirettamente risponde con l’affermazione precisa, asciutta e drammaticamente vera: “Vogliono fare sul serio? Introducano le operazioni sotto copertura come negli Stati Uniti. Coi test di integrità. Me l’ha spiegato un amico americano: ogni tanto mandiamo in giro degli agenti in incognito a offrire mazzette. Chi le prende lo sbattiamo dentro. E diamo una ripulita”. Dunque una via d’uscita c’è, ma non piace…
Uno degli aspetti più interessanti emersi dal rapporto della Commissione è che la corruzione non riguarda solo il settore pubblico, ma anche quello privato. Infatti l’Italia non ha ancora pienamente trasposto una direttiva europea per lottare contro questo fenomeno, ma oltre a ciò il Paese ha un sistema di contabilità societaria che non rispetta la Convenzione penale contro la corruzione del Consiglio d’Europa.
Tuttavia “L’azione penale esiste – dice Davigo – nonostante l’Italia non abbia ancora ratificato la direttiva europea che introduce la corruzione privata”. Ma ciononostante ad oggi “il direttore dell’ufficio acquisti di una grande azienda che incassa delle tangenti per ammettere dei fornitori, rischia al massimo una causa civile dalla stessa azienda”.

E non finisce qui, perché chiunque almeno una volta avrà sentito parlare dei tanto chiacchierati paradisi fiscali dove “le resistenze e i vincoli non esistono per i ladri ma per le guardie”.
E Davigo riporta la sua di esperienza nelle vesti di guardia: “ Io ho dovuto lavorare due anni per una rogatoria su Hong Kong. Ad un certo punto hanno tentato pure di negare l’esistenza della banca, una delle più grandi del paese, per poi sentirmi dire che non mi era concesso sapere il destinatario di una tangente. Insomma, non possiamo più attendere 20 anni per ricostruire il giro compiuto in un giorno da una tangente: tutto ciò è incompatibile anche con la vita umana. Uno fa in tempo a morire prima di essere scoperto”.
Tutto ciò è dovuto al fatto che il “malcostume” ha assunto le sembianze di una consuetudine, accettata nel nostro Paese.
Nei vari libri che ha scritto su questo tema, tra i quali “La giubba del re. Intervista sulla corruzione”, edizioni Laterza, 2004 e “La corruzione in Italia”, scritto con Grazia Mannozzi e edito sempre da Laterza, 2007, Davigo fa luce proprio su questa tendenza a tollerare, o quantomeno a convivere, con una piaga contro la quale ci si ribella solo quando “il malumore e le preoccupazioni impediscono alle persone di sentirsi raccontare delle bugie”.
Nei suoi scritti, redatti con approccio alquanto scientifico, viene messo in evidenza come i dati raccolti abbiano confermato che i grandi scandali economici coincidono con i periodi di crisi: scandalo petroli, manipulite ecc…, per cui “La corruzione emerge quando la torta non basta. Il patto illecito, stretto tra due parti che non hanno interesse a farlo sapere, si rompe quando una delle due parti è insoddisfatta e quindi litiga con il ‘socio'”.
Per combattere il malcostume sarebbe allora necessario un patto tra politica e giustizia, ma questo appare più che mai un’utopia proprio in ragione del fatto che “I finanziamenti illeciti servono a finanziare i costi assurdi della politica. Ancora oggi, la legge elettorale non consente la reale selezione della classe politica che è il presupposto per un patto tra politica e giustizia”.

E allora a noialtri, semplici cittadini, cosa resta?

Probabilmente solo di guardare il calendario tornando con memoria nostalgica a quel 17 febbraio 1992 quando ebbe inizio l’inchiesta di Mani Pulite, con l’arresto in flagranza di reato di Mario Chiesa, e per un momento l’Italia avvertì il sussulto di una giustizia che all’epoca riuscì a scoperchiare il pentolone del malaffare, ma non a rovesciarlo, regalando ai postumi quello ad oggi è e resta soltanto un bel ricordo.

 

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