Ashgar Farhadi, “Una Separazione” da Oscar

Ha fatto incetta di premi ovunque, nelle rassegne internazionali, nei festival  europei ,ma il premio più inaspettato più significativo  è stato l’assegnazione dell’Oscar quale miglior film straniero: due paesi politicamente in conflitto,  Stati Uniti ed Iran,in nome dell’arte, riescono a superare la brutale contrapposizione e  a tributarsi il dovuto riconoscimento culturale.
Parliamo del film di Ashgar Farhadi,“Una  separazione”,che si avvale delle straordinarie interpretazioni di Sarah Bayat, Peyman Modi, Sarina Farhadi e che ha portato di nuovo alla ribalta la cinematografia iraniana. Produrre e realizzare un film che racconti il vero e le sue problematiche ,nell’Iran di oggi,è  ,oggettivamente impresa rischiosa e comunque falsificante(basti pensare che nelle pellicole ,anche all’interno delle case,per motivi di censura le attrici sono costrette a portare il velo): in uno stato teocratico non si chiede il rispetto del reale ma l’esaltazione dei valori imposti, anche se non condivisi. E proprio per questa situazione paradossale di una società interamente circoscritta da rigide barriere religiose, quando un regista come Farhadi si mantiene saldamente ancorato all’autenticità dell’esistente, se anche vuol raccontare  una storia del tutto privata di sentimenti e drammi che non escono dal recinto familiare, l’esito dell’operazione è inevitabilmente di tipo politico. Nader e Simin sono una coppia che chiede al giudice preposto la separazione legale della loro unione: il problema sembra apparentemente non di natura sentimentale ma di tipo professionale. La donna infatti dopo insistenti richieste ha ottenuto il permesso di espatrio per ragioni di lavoro,  ma il marito non vuole seguirla perché non se la sente di abbandonare il vecchio padre colpito da Alzhaimer. La loro figlia adolescente non vuole abbandonare il padre e prega la madre di rinunciare ai suoi progetti professionali. In questa vicenda si inserisce il dramma della badante incaricata di accudire il vecchio padre,rigorosamente osservante delle indicazioni religiose della comunità islamica al punto di farsi  sempre accompagnare dalla figlioletta per ragioni di decoro. La donna è incinta e perderà il bambino accusando Nader di averle procurato l’aborto nell’ alterco seguito all’accusa di furto rivoltale. La vicenda in sé semplice, apparentemente uno dei tanti casi di conflitto giudiziari- Nader dovrà discolparsi dall’accusa di omicidio,il procurato aborto-, viene seguita dal regista invece con una insolita sapienza narrativa fatta di tempi precisi, di momenti avvincenti, di vera e propria suspence psicologica e di  improvvisi colpi di scena. Tutto si svolge in appartamenti dove protagonisti e comprimari non riescono a superare le barriere invisibili delle loro solitudini – metà delle riprese son fatte aldilà di vetri che collocano gli attori come in una sorta di acquario – e i due unici spazi esterni e collettivi presentati , sovraffollatissimi, chiassosi  e carichi di passionalità disordinata, sono i luoghi preposti dalla società al riequilibrio individuale e comunitario, i luoghi della giustizia e della salute, tribunale e ospedale. E allora si capisce che la separazione non riguarda solo la coppia  ma riguarda ,soprattutto l’intera collettività divisa tra una tendenza alla razionalità e alla laicità ,viste come strumenti di equilibrio sociale e psicologico, e il legame avvolgente e soffocante di un rigido ,invasivo e onnipresente  pensiero religioso. L’abilità del regista sta appunto nel non abbandonare mai uno  sguardo obiettivo  e senza pronunciamenti che fa parlare i fatti e i loro autori ,consegnandoci così  lo  spaccato vero di un mondo che conosciamo poco e che rischiamo di fraintendere qualora ci affidassimo,unicamente  ad un giudizio di tipo manicheo.

PROF.ANTONIO LUCCARINI

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