Violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale: concorso formale di reati?

LE SEZIONI UNITE SULL’APPLICABILITÀ DELL’ART. 81, PRIMO COMMA, C.P. AI DELITTI DI CUI AGLI ARTT. 336 E 337 C.P.

di Avv. Michela Foglia

law-2632555_960_720Sono state depositate lo scorso 24 settembre le motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite n.40981/2018 con la quale la Corte di Cassazione si è pronunciata sul quesito “Se in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 c.p., la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato”.

La fattispecie criminosa in questione, appartenente alla categoria dei delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione, è annoverata dalla dottrina tra i reati plurioffensivi, atteso che, con essa, il legislatore intende tutelare la libertà di azione e di determinazione del pubblico ufficiale e, dall’altro, il corretto funzionamento dell’attività della Pubblica Amministrazione con riferimento ai principi di «buon andamento» ed «imparzialità» contemplati dall’art. 97 Costituzione.

Se, dunque, il reato di cui all’art. 337 c.p. viene accomunato all’ipotesi delittuosa di cui al precedente art. 336 c.p. in ordine al soggetto passivo del reato nonché alle modalità attraverso le quali si esplica la condotta quali la violenza o la minaccia, è la finalità perseguita dal soggetto attivo del reato a rappresentare l’elemento distintivo tra le due fattispecie.

Mentre nel caso previsto dall’art. 336 c.p., infatti, la violenza o minaccia è riferita ad un’attività futura del funzionario, con lo scopo di incidere sul processo formativo della volontà di quest’ultimo, nell’ipotesi presa in esame dalla recente pronuncia della Suprema Corte l’azione è posta in essere mentre il funzionario compie l’atto del suo ufficio e mira ad opporsi all’attività nel corso del suo svolgimento.

Nel caso di specie, in primo grado era stata riconosciuta la continuazione ex art. 81 c.p. con l’applicazione del conseguente aumento di pena previsto avendo ritenuto che sussistessero una pluralità di fatti delittuosi commessi in continuazione tra loro.

La configurabilità di un unico reato ovvero di un concorso formale di reati o un reato continuato, su cui si basa l’impugnazione proposta avverso la sentenza di primo grado, non è questione di poco conto se ci si sofferma sulle ricadute, in particolare, relative al trattamento sanzionatorio che, nel primo caso sarebbe quello previsto per il reato di cui all’art. 337 c.p. ovvero la reclusione da sei mesi a cinque anni, mentre, nel secondo caso, potrebbe subire, a norma dell’art. 81 c.p. un aumento fino al triplo.

Secondo la norma il concorso formale di reati può configurarsi sia quando con una sola azione siano violate diverse norme di legge (concorso formale eterogeneo di reati), sia quando con una sola azione, venga violata contestualmente ma più volte la medesima disposizione di legge (concorso formale omogeneo di reati). Per poter parlare di “azione unica” occorre prendere in considerazione i casi in cui l’azione si risolva in un “atto unico” ovvero quelli in cui l’azione si concretizzi nel compimento di più atti contestuali nello spazio e nel tempo realizzati perseguendo uno scopo unico.

Ebbene, esclusa la sussistenza della pluralità di fatti, incompatibile con le risultanze processuali, in sede di appello veniva confermata la decisione di primo grado specificando che la continuazione e il conseguente aumento di pena previsto, erano da ricollegarsi non tanto alla pluralità delle condotte delittuose, quanto al fatto che l’illecito era stato consumato in danno di una pluralità di pubblici ufficiali.

Proprio per l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale relativamente all’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 81 c.p. al caso in cui l’azione di resistenza sia rivolta contestualmente a più pubblici ufficiali nel compimento del medesimo atto d’ufficio la decisione è stata rimessa, dopo il ricorso in Cassazione della difesa, alle Sezioni Unite.

Un primo orientamento, infatti, muovendo dalla tesi secondo cui il reato di resistenza a un pubblico ufficiale si perfeziona con l’offesa ad ogni singolo pubblico ufficiale nei cui confronti viene esercitata la violenza o la minaccia finalizzata ad ostacolarlo nel compimento di un atto dell’ufficio e nel momento in cui egli lo sta compiendo riteneva che, nel caso di un unico atto che offenda contestualmente una pluralità di pubblici ufficiali, viene a realizzarsi una pluralità di violazioni dell’art. 337 c.p., e, di conseguenza, la sanzione andrebbe determinata in base all’art. 81 c.p. con un aumento della pena prevista per la violazione fino al triplo.

Un secondo orientamento, all’opposto, nel ritenere che “la resistenza troverebbe il suo momento consumativo nella opposizione all’atto” e conseguentemente l’offesa realizzata nei confronti di una pluralità di pubblici ufficiali avrebbe “carattere meramente strumentale nella realizzazione dell’illecito” giungeva a considerare la condotta del reo, finalizzata ad impedire il compimento dell’atto, come azione unica, essendo unico l’atto amministrativo da impedire, indipendentemente dal numero dei pubblici ufficiali coinvolti nella sua esecuzione.

Nel risolvere la questione le Sezioni Unite hanno ritenuto opportuno analizzare la struttura obiettiva del delitto di cui all’art. 337 c.p. muovendo dalla considerazione secondo la quale la condotta tipica è rappresentata dall’uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per opporsi a un pubblico ufficiale mentre compie un atto dell’ufficio o del servizio. Essendo, dunque, sanzionata ogni condotta diretta a realizzare questo scopo mediante l’uso della violenza o della minaccia, “l’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico”.

Individuati in questo modo la condotta sanzionata e l’oggetto materiale su cui la stessa ricade, consistenti nell’opposizione-offesa rivolta ad un pubblico ufficiale agente, gli ermellini pervengono a individuare il bene giuridico tutelato dalla norma, che, tenuto conto della collocazione sistematica e dell’intitolazione della disposizione, non può che essere il “regolare funzionamento della pubblica amministrazione” da intendersi, però, in senso ampio “in quanto in esso si ricomprende anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 cod. pen.”.

Proprio questa tutela delle singole persone fisiche che adempiono al loro ruolo per assicurare il funzionamento della pubblica amministrazione perseguita dall’art. 337 c.p. fa sì, secondo le Sezioni Unite, che non possano essere ritenute valide le argomentazioni a sostegno della tesi per la quale l’opposizione sarebbe nei confronti dell’atto e non del pubblico ufficiale in quanto “non tengono conto della descrizione dell’illecito come configurato dal testo della norma e dall’altro, sul piano logico-giuridico, anche quando fanno riferimento all’interesse protetto, non evocano argomenti idonei a superare la lettera della legge”.

L’analisi così svolta conduce le Sezioni Unite a rispondere al quesito loro sottoposto statuendo che “In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio”.

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