Rock & Diritto: Marvin Gaye, la tragica fine di una voce soul

di Valentina Copparoni

Tra i delitti che hanno segnato il panorama musicale rimane ancora vivo il ricordo dell’omicidio di Marvin Gaye, affermato e talentuoso artista soul ed R&B che ebbe il suo apice di successo nei primi anni ’70.
Divenuto una star inizialmente grazie alle sue capacità di compositore e produttore che lo vedevano al lavoro con gli artisti della storica etichetta Motown, ebbe la sua affermazione come cantante nel 1970 con il brano ed omonimo album “What’s Going On”, considerato un’opera di rottura dai classici prodotti pubblicati dalla Motown sia per le sue sonorità jazz e funk che per i testi socialmente impegnati.

Purtroppo non parallela alla sua ascesa artistica poteva considerarsi l’andamento della sua vita privata; oltre ai vari problemi economici e coniugali con le due mogli, vi era di base anche un perenne conflitto con il padre, predicatore fondamentalista della Church Of God, che gli fece conoscere un’adolescenza fatta di violenza ed imposizioni autoritarie.
Tutte queste situazioni, e forse un’instabilità di fondo per il sentirsi mai veramente accettato e voluto, lo gettarono nel baratro dell’ uso di sostanze stupefacenti e paranoie psicologiche come quella di girare, poco prima della morte, con un giubbotto antiproiettile per paura di essere assassinato. Proprio a causa di questa paranoia sulla sicurezza Marvin Gaye decise di armare la propria famiglia di una pistola calibro 38, la stessa che il padre rivolse ed utilizzò contro di lui il 1° Aprile 1984 durante l’ennesima lite padre-figlio.
Due colpi furono sparati ed uno fu fatale per il cantante, ma le indagini che seguirono accertarono che gli spari vennero esplosi dal padre per difendersi dall’aggressione che stava subendo da parte di Marvin il quale riuscì ad infliggergli diversi segni della violenza.  Tale ricostruzione fece cadere le accuse per omicidio premeditato (che è tra le forme più gravi di omicidio) ed i giudici, per via dell’età avanzata, delle droghe trovate nel corpo del figlio e dell’aggressione fisica subìta per mano di quest’ultimo, concessero al  padre di Marvin, dichiaratosi comunque colpevole di omicidio, il patteggiamento (ossia un accordo sulla pena) a 5 anni di reclusione da scontare in una casa di riposo sotto continui controlli psichiatrici.
La sentenza pronunciata il 2 novembre 1984 dal Giudice Gordon Ringer lapidariamente conclude che “in base alle circostanze ed in seguito alle indagini condotte da investigatori abili ed esperti, si può concordare che  la giovane vittima abbia provocato la sua stessa morte” e ciò a  causa sia dell’aggressione compiuta nei confronti del padre che per le sostanze stupefacenti trovate nel suo corpo, sicura causa di condizionamento della sua lucidità mentale.

La tragica fine di Marvin Gaye  spezza  troppo presto una carriera che avrebbe potuto offrire ancora tanto grazie alla sua musica di qualità e socialmente impegnata.

 

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