Morte di Stefano Cucchi. Il processo di appello si chiude con l’assoluzione di tutti gli imputati

LA CORTE D’ASSISE D’APPELLO TRA NOVANTA GIORNI DEPOSITERA’ LE MOTIVAZIONI. LA FAMIGLIA DI STEFANO CUCCHI ANNUNCIA ANCORA BATTAGLIA

di Avv. Valentina Copparoni (Studio legale associato Rossi-Papa-Copparoni di Ancona)

cucchi-jpegI giudici della prima Corte d’assise d’appello di Roma, presieduti dal Giudice D’Andria,  sono entrati in camera di consiglio intorno alle 13 di venerdi scorso per scrivere la verità, quantomeno quella processuale, sugli imputati nel processo per la morte del giovane Stefano Cucchi: sei medici, tre infermieri e tre agenti della penitenziaria.

Un processo lungo, difficile, sotto i riflettori mediatici, pieno di consulenze dagli esiti spesso contrastanti tra loro, una maxi-perizia e  dichiarazioni di quasi 150 testimoni.

La decisione finale, di cui avremo le motivazioni tra novanta giorni, è l’assoluzione di tutti gli imputati. Nello specifico un ribaltamento di giudizio per il primario del Reparto detenuti del ‘Pertini’, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (quest’ultima imputata per il solo reato di falso ideologico) ed una conferma della sentenza di assoluzione per gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe e  per gli agenti della Penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio, Antonio Domenici.
Gli esiti potevano essere diversi: una conferma della sentenza di primo grado con cui erano stati condannati soltanto i medici per omicidio colposo (tranne una, Rosita Caponnetti condannata solo per falso) oppure un ribaltamento della decisione di primo grado con la condanna di tutti gli imputati oppure, da ultimo, l’accoglimento delle richieste dei difensori degli imputati con l’assoluzione dei loro assistiti.

E cosi è stato. Anche gli imputati condannati in promo grado sono stati assolti.  Si parla si insufficienza di prove ma vedremo bene in che termini con le motivazioni complete della decisione.

Prima che la Corte di ritirasse per decidere si sono svolte le repliche difensive degli avvocati di tutte le parti in causa. L’Avv. Fabio Anselmo, legale dei familiari di Stefano Cucchi, aveva chiesto che la Corte disponesse la nullità della sentenza di primo grado e la restituzione degli atti all’ufficio del pubblico ministero perché l’accusa da contestare doveva essere modificata in omicidio preterintenzionale. Durante il suo intervento l’Avv. Anselmo ha mostrato anche una serie di gigantografie di Stefano Cucchi per dimostrare quali fossero le condizioni fisiche del geometra. Hanno preso la parola anche i due agenti di custodia Nicola Minichini e Antonio Domenici, imputati insieme con il collega Corrado Santantonio, che hanno voluto sottolineare “la loro specchiata carriera al servizio della legge e dello Stato senza mai essere stati coinvolti in fatti negativi”.

Le reazioni anche in aula non sono mancate, forti, cariche di emozioni, lacrime, rabbia, delusione per i familiari di Stefano ma anche cariche  di soddisfazione da parte degli imputati assolti.

“Una giustizia malata ha ucciso Stefano. Mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l’udienza di convalida del suo arresto per droga, e il giudice non vide che era stato massacrato”. Cosi ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, da sempre in prima fila nella personale battaglia per assicurare al fratello la giustizia che tutti hanno diritto di avere, da vivi o da morti.“Continueremo la nostra battaglia finché non avremo giustizia. Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli”, Queste le parole dei genitori di Stefano.L’Avv. Anselmo : “Era quello che temevo. Vedremo le motivazioni e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte”.I legali degli imputati, sei medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria: “Era quello che ci aspettavamo come risultato minimo. Siamo molto soddisfatti”, dice Gaetano Scalise, difensore del professor Aldo Fierro, primario del reparto detenuti dell’ospedale Pertini. “Il punto nodale è che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi e questo esclude la responsabilità del medici”. “Una sentenza assolutamente equilibrata perché dà atto dei dubbi che la perizia non era riuscita a risolvere”, cosi  i legali di Luigi De Marchis Preite, altro medico imputato nel processo.

Soddisfatto anche il sindacato di polizia Sap: “tutti assolti, come è giusto che sia” dice il segretario Gianni Tonelli. In una nota si legge “In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”.Parole pesanti, forse troppo difronte ad un dolore ed una tragedia che ad oggi appare prima di colpevoli e di risposte certe nonostante anni di processi.

Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, afferma di essere senza parole. “ Il rispetto per i giudici è massimo ma questa sentenza è dissonante rispetto alle conclusioni formulate dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale del Senato. Amnesty International ha dichiarato “Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti. Quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero. E non accerta alcuna responsabilità per un decesso che tutto appare meno che accidentale o auto-procurato”.

Intanto la famiglia di Stefano non si arrende, con la forza e la caparbietà che spesso soltanto l’amore riesce a dare, è sempre più unita nella battaglia per la Verità e la Giustizia ed ha anche scritto al Campidoglio per proporre la donazione al Comune del casale in cui spesso si rifugiava il giovane Stefano sperando che possa diventare  un centro di recupero e lavoro per ex tossicodipendenti.

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

 L’8 giugno del 2013 si era  chiuso il giudizio di primo grado per la morte del romano Stefano Cucchi e il 3 settembre successivo erano state depositate le motivazioni della sentenza di chiusura del processo con la quale erano stati condannati  per omicidio colposo il primario Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico) ed erano stati assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.

188 pagine in cui la causa del decesso di Cucchi veniva  indicata nella malnutrizione, nello specifico nella c.d. “sindrome da inanizione”

La Corte d’Assise di Roma aveva ritenuto, infatti, di accogliere in pieno le conclusioni formulate dai periti nel corso del giudizio “fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d’indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore” ritenendo la “sindrome di inanizione” l’unica in grado di fornire una spiegazione dell’elemento più appariscente e singolare del caso in esame e cioè l’impressionante dimagrimento cui è andato incontro Cucchi nel corso del suo ricovero”.

”Al contrario -continua la Corte- la tesi, sostenuta dalle difese degli imputati, secondo cui il giovane sarebbe stato condotto all’exitus da morte cardiaca improvvisa, non fornisce alcuna spiegazione della grave perdita di peso corporeo subita da Stefano Cucchi ma anzi si fonda, in contrasto con le risultanze probatorie (il peso di 52 kg registrato all’ingresso in carcere), sull’errato assunto che il peso corporeo di Cucchi in realtà fosse intorno ai 40 kg”.

La Corte nella sentenza di primo grado continuava sostenendo che ”ancor meno convincenti sono le conclusioni dei consulenti delle parti civili secondo cui il decesso si sarebbe verificato a causa delle lesioni vertebrali che, interessando terminazioni nervose, avrebbero dato origine ad una sintomatologia dolorosa e che, unitamente ad una “vescica neurologica’”, avrebbero ingenerato, con riflesso vagale, l’aritmia cardiaca consistente in una brachicardia da ritmo giunzionale la quale si sarebbe a sua volta inserita causalmente nel determinismo della morte. Anche questa tesi presta il fianco all’insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali in questione abbiano interessato terminazioni nervose”.

Il decesso di Stefano Cucchi, quindi, veniva imputato alle condotte dei medici ”contrassegnate da imperizia, imprudenza e negligenza sia per la omissione della corretta diagnosi, non avendo i sanitari individuato le patologie da cui era affetto il paziente, in particolare tenuto conto del suo stato di magrezza estrema, sia per avere trascurato di adottare i più elementari presidi terapeutici che non comportavano difficoltà di attuazione e che sarebbero stati idonei a evitare il decesso, sia per avere sottovalutato il negativo evolversi delle condizioni del paziente che avrebbero richiesto il suo urgente trasferimento presso un reparto più idoneo”.

Inoltre la Corte d’Assise escludeva il reato di abbandono di incapace. I fatti descritti nel capo d’imputazione, infatti, – continuava la Corte –  “non consentono di ravvisare il reato di abbandono d’incapace, del quale non ricorre alcuno dei presupposti oggettivi nè soggettivi, ma quello di omicidio colposo. (…) “È sufficiente fare richiamo, per escludere la ricorrenza della fattispecie di abbandono d’incapace alla circostanza che praticamente tutti i testi esaminati hanno negato che Cucchi, quantunque gravemente sofferente, fosse portatore di una ridotta capacità psichica”.

Ma la sentenza era andata oltre  parlando anche della condotta dei carabinieri che arrestarono Stefano ritenendo “legittimo il dubbio che Stefano Cucchi, arrestato con gli occhi lividi e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri”. Episodi, quindi, che secondo la ricostruzione dei fatti, sarebbero avvenuti al momento dell’arresto di Cucchi e prima della sua consegna agli agenti di polizia penitenziaria per il trasferimento nelle celle sotterranee del Tribunale di Roma dove si sarebbe svolta la convalida dell’arresto per droga.
Sul punto, in particolare, la Corte parlava di un comportamento “anomalo” collocabile “nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare (verso le due di notte) e l’arrivo della pattuglia automontata (intorno alle 3,40), dovendosi ragionevolmente escludere che atti violenti fossero stati posti in essere dal carabiniere Colicchio (che chiamò il 118 perché Cucchi non stava bene) o dai carabinieri della pattuglia che si erano limitati ad effettuare il trasferimento dell’arrestato da una caserma all’altra”.Ed ancora ”in via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa, mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente abitava”.

 La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, da anni in prima fila per ottenere giustizia per il fratello, aveva  commentato “Questa sentenza è una pietra tombale sulla morte di mio fratello. Questa è una tipica sentenza italiana. Smonta l’impianto accusatorio della Procura e per quanto riguarda il pestaggio si ipotizza che possa essere stato compiuto dai carabinieri senza però trasmettere gli atti ai pm per fare indagini”.
Sulla tragica vicenda di Stefano Cucci si è scritto e letto tanto. Vi consigliamo però anche la visione del film-documentario “148: i mostri dell’inerzia” che ricostruisce proprio gli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi, quelli su cui anche il processo di primo grado ha cercato di fare luceLa regia è di Maurizio Cartolano, da un un’idea di Giancarlo Castelli, prodotto da Simona Banchi e Valerio Terenzio per Ambra Group, con il patrocinio di Amnesty International e Articolo 21.Il titolo deriva dal fatto che il giorno della morte, 22 ottobre 2009, Stefano è la 148esima persona deceduta all’interno di un carcere italiano; il film-documentario si sviluppa attraverso la voce e le immagini di Stefano, le testimonianze, i filmini della famiglia, le lettera scritte da Stefano, le parole del padre e della sorella che ricordano un figlio ed un fratello tra dolore e rabbia che più che nelle loro parole si mostrano nei loro occhi, nella loro voce e nelle loro mani tremanti, spesso inquadrate. Ilaria, diventa quasi una co-protagonista della storia che guida per mano gli spettatori nella difficile ricostruzione della vicenda del fratello.
E’ un racconto umano in cui Stefano è il protagonista con le sue fragilità ma anche i suoi sorrisi durante una festa di compleanno in famiglia, quella stessa famiglia che pur nei momenti più oscuri, di riprese e ricadute, gli è stata sempre accanto con amore ma a volte anche con durezza per cercare di impedirgli di buttare via se stesso e con lui un pezzo delle loro vite.
Il documentario, come il libro scritto da Ilaria, “Vorrei dirti che non eri solo”, ripercorre su due piani paralleli la vita di Stefano e della sua famiglia e gli ultimi giorni di vita del ragazzo in quel mese di ottobre 2009. I piani sono paralleli ma alla fine si incontrano, purtroppo però si incontrano dove mai dei genitori ed una sorella vorrebbero ossia in un obitorio dove il cadavere irriconoscibile di Stefano viene mostrato alla famiglia in tutta la sua inaccettabile durezza. La lettura del libro scritto dalla sorella “Vorrei dirti che non eri solo” (rileggi qui) è stato un pugno allo stomaco e lo stesso la visione del film; le pagine di quel libro sono state tradotte in immagini ed interviste che, come il libro, mi hanno lasciato tante domande, forse troppe.

Un atto di denuncia, di richiesta di verità e giustizia non solo per Stefano ma anche per le famiglie di tanti altri detenuti che sono morti quando si trovavo nelle mani dello Stato.

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