La triste storia della legge 194 bisfrattata e reietta

QUANDO IL DIRITTO CEDE IL PASSO ALLA MORALE

Di Avv.Marusca Rossetti

 
 imagesA maggio 2013 è uscita su Repubblica una inchiesta di Maria Novella De Luca intitolata “194, così sta morendo una legge. In Italia torna l’aborto clandestino”. 
Al centro del dibattito la problematica creata dal fatto che oltre l’80% dei ginecologi si dichiara attualmente obiettore di coscienza e per tale via molte donne si vedono respinte dalle istituzioni e per ciò costrette a ricorrere a rimedi clandestini così come accadeva prima del 22 maggio 1978, data in cui è entrata in vigore la legge che ha legalizzato nel nostro Paese la pratica dell’aborto.
La giornalista riporta dei dati e delle testimonianze allarmanti. 
 
Sarebbero ventimila gli aborti illegali calcolati dal ministero della Sanità con stime che non sono più state aggiornate dal 2008, cifre calcolate soltanto sul tassi di abortività delle donne italiane(6,9 per 1000). Molti altri elementi indurrebbero, invece, a raddoppiare i numeri per cui sarebbero quarantamila, forse cinquantamila gli aborti clandestini reali. Nel 2011 sarebbero stati settantacinquemila secondo l’ISTAT, dei quali almeno un terzo frutto di interventi “fai da te” finiti male. Non solo, andando ad analizzare i dati inerenti gli aborti spontanei, si è passati dai cinquantacinquemila degli anni Ottanta, a quasi ottantamila oggi. E secondo i più, non di autentici aborti spontanei si tratta bensì di aborti illegali “mascherati”: ovvero, analogalmente a ciò che avveniva prima della legge, anche oggi donne che hanno tentato da sole di interrompere la gravidanza arrivano in ospedale con emorragie e dolori e vengono salvate da medici che li registrano come “spontanei”.
 
Naturalmente, come per ogni altro ambito, anche qui risultano nettamente diversificate le posizioni dei non abbienti da chi, invece, gode di una certa disponibilità monetaria. Sì perché, mentre per le donne che appartengono a questa seconda categoria permane la possibilità di sottoporsi a ivg in tutta sicurezza e nel rispetto delle più elementari norme igienico-sanitarie, rivolgendosi a cliniche private specializzate o andando addirittura all’estero; per coloro le quali o sono straniere e il più delle volte povere, o sono minorenni o comunque sono donne psicologicamente fragili, meno esperte, il rischio di cadere nell’illegalità, ponendo in essere questi aborti in solitaria, quasi sempre di tipo farmacologico, è elevatissimo. Senza trascurare che il mercato di tali “sostanze” è più che pubblicizzato in rete e contornato di dettagliate istruzioni per l’uso e così spopolano soprattutto confezioni di Ru486 di contrabbando(la cd. pillola del giorno dopo alla quale ricorrono sempre di più soprattutto le giovanissime)e blister di un farmaco per l’ulcera a base di “misoprostolo”che preso in dosi massicce provoca l’interruzione di gravidanza(spacciato da gang sudamericane che lo fanno arrivare nel porto di Genova dagli Stati Uniti), acquistabile sul mercato nero alla modica cifra di cento euro, a meno della metà se si compra su Internet.
 
Quando, il 22 maggio del 2013, è ricorso il 35°anniversario della Legge 194, c’è chi, come Massimo Pandolfi caporedattore del “Il Resto del Carlino”, non ha mancato di esternare il suo disappunto per la promulgazione e il mantenimento in Italia di un testo legislativo dietro al quale si celerebbero “bugie ideologiche che circondano l’argomento aborto”, perpetrate nel corso degli anni in modo continuativo e imperterrito.
Dove si annidano queste menzogne? Nel messaggio diffuso dai sostenitori della legge secondo i quali questa si era resa necessaria per ridurre o eliminare gli aborti clandestini che sarebbero stati un milione all’anno prima del 1978. 
 
Francesco Agnoli, giornalista de Il Foglio, si è occupato delle cifre sull’aborto in un lungo articolo del 15 marzo 2011 rinvenibile sul sito www.marciaperlavita.it.
Partendo da Bernard Nathson, celebre medico americano fondatore a New York della “Lega d’azione per il diritto all’aborto”nel 1968 e direttore, in quegli anni, della più grande clinica per aborti del mondo, il Crash, Agnoli ci informa di come costui, dopo aver effettuato insieme con la sua equipe, ben 75.000 aborti, rivedette le sue posizioni, diventando uno strenue difensore della vita sin dal suo concepimento.
Cavalcando questa inversione di tendenza Nathson ha cominciato a raccontare  quelle che erano le tecniche propagandistiche tipiche degli abortisti di tutto il mondo, usate ovviamente anche da lui a suo tempo. Tesi volte a capovolgere e indirizzare l’opinione pubblica fornendo principalmente “sondaggi fittizi”, nei quali il numero dei favorevoli all’aborto veniva volutamente gonfiato per rendere normale e accettabile l’idea stessa di tale pratica. Non solo.
Per raccogliere consensi e adesioni si  batteva sulla possibilità di scardinare il fenomeno degli aborti clandestini. Puntando sul fatto che le donne, comunque, abortivano e avrebbero continuato a farlo ugualmente, in condizioni di non sicurezza mettendo a repentaglio la loro salute e, soprattutto, la loro stessa vita, veniva pubblicizzato il messaggio che la legalizzazione avrebbe consentito di rendere più controllabile e “sicuro” un fenomeno già esistente. E per raggiungere il risultato le cifre venivano gonfiate e si fingeva di conoscere qualcosa che, di per sè, era inconoscibile: il numero degli aborti effettuati, appunto, clandestinamente.
La stessa tattica sarebbe stata adottata, in quegli anni, anche in Italia allorché, nel 1971, il Psi ha presentato al Senato un disegno di legge  per introdurre l’aborto legale, parlando di due/tre milioni di aborti clandestini praticati sul territorio nazionale e di 25.000 donne decedute a seguito degli stessi.
Nel 1977 uno studio intitolato “La diffusione degli aborti in Italia” a cura del prof. Bernardo Colombo, demografo dell’Università di Padova in collaborazione con altri due docenti della medesima facoltà, Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi, entrambi professori di Statistica, ha dimostrato, con argomentazioni varie, che le cifre propugnate dagli abortisti erano false. Una per tutte: per mantenere la media di un milione di aborti all’anno sarebbe stato necessario che almeno il 50% delle donne italiane in età feconda avesse abortito esattamente 5,3 volte nell’arco della propria vita riproduttiva. 
Nel 1979, poi, nonostante l’entrata in vigore della legge, si registrarono 187.752 aborti legali, ovvero un numero straordinariamente inferiore a quello che era stato denunciato negli anni precedenti e ciò, ovviamente, non ha mancato di far sorgere fondate perplessità circa la veridicità dello stesso: come era possibile, infatti, che gli aborti fossero diminuiti dopo essere diventati legali, gratuiti e liberi nei primi mesi, diversamente da prima quando erano illegali e determinavano punizioni penali per il medico e per la donna?
Infine, con riguardo alle donne morte per pratiche clandestine, andando a consultare il Compendio Statistico Italiano del 1974, ci si avvide che in Italia, nell’intero anno, erano morte 9.914 donne tra i 14 e i 44 anni, e cioè in età feconda e quindi, se anche tutte fossero decedute per aborto clandestino, non sarebbero mai potute essere quelle 25.000 delle quali si era parlato nel periodo propagandistico antecedente la legge.
 
Ora, chi scrive non mette assolutamente in discussione la fondatezza di questo “smascheramento”, divenuto baluardo dei movimenti a sostegno della vita che si contrappongono alla 194. 
Però la questione forse merita un pò più di delicatezza e maggior attenzione, soprattutto da un punto di vista giuridico e sostanzialistico, che è quello che deve assolutamente predominare nell’ambito di un ordinamento che è per definizione laico, altrimenti si rischia di scadere in affermazioni poco gradevoli come quella che si può leggere sul sito www.uccronline.it (Unione Cristiani Cattolici Razionali) per cui “oggi il nemico degli abortisti è l’obiezione di coscienza e per tentare di abolire tale diritto si sta tornando alla stessa grande menzogna”(mio: quella degli anni Settanta, naturalmente).
 
Il Comitato Nazionale per la Bioetica il 12 luglio 2012 ha approvato un parere in tema di obiezione di coscienza con il quale, partendo dalla premessa che “La sfida del riconoscimento giuridico dell’odc consiste proprio nell’evitare di incrinare il principio di legalità e nel far convivere la legittimità dell’obiezione, specialmente quando inerisce a valori costituzionali fondamentali, con la tutela di chi è titolare di diritti legalmente previsti”, da un lato, sia pure implicitamente, ha riconosciuto l’esistenza di un “diritto all’aborto” laddove ha preso atto che quanto previsto dalla legge 194/78 non va ostacolato, perché diventato oramai conquista irrinunciabile. E dall’altro arriva a concludere che “l’obiezione di coscienza in bioetica è costituzionalmente fondata(con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo) e va esercitata in modo sostenibile; essa costituisce un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili”.
Senonchè Carlo Flamigni, medico, accademico e facente parte del gruppo di lavoro istituito dal CNB ai fini della redazione del parere, ha sottolineato importanti punti di frizione fra le conclusioni alle quali il Comitato è giunto rispetto al principio di legalità.
Osservazioni che si condividono pienamente e che si fanno proprie, alla luce di una disamina che, come già detto in precedenza, deve necessariamente tenere conto che ci si muove nell’ambito di un ordinamento che è giuridico e che appartiene ad uno Stato laico.
 
La prima delle incongruenze risiede nella circostanza che, stando al tenore del parere del Comitato, ques’ultimo ha operato dando per scontato che la L. 194/78 sia  il risultato di un mero potere autoritario nonostante sia stato legittimato a suo tempo da una maggioranza parlamentare e in seguito dal referendum popolare che ha poi confermato la legge, ma scusate se è poco…
E a tutt’oggi viene fatta passare  come sostanzialmente, o sarebbe più corretto dire moralmente, ingiusta e contraria ai diritti umani.
Lascia dunque decisamente perplessi che la base giuridica e costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza all’aborto venga individuata sull’assunto che la legge 194 sia una legge approvata da un potere dispotico contro il “diritto umano” alla vita nella fase pre-natale, per cui “l’obiezione di coscienza all’aborto diventerebbe l’istituto democratico che in una società assuefatta alla liceità dell’aborto, tiene aperta la discussione sui diritti fondamentali e testimonia a favore di quel diritto”.
Innanzitutto si deve tenere presente che la tutela della vita prenatale non rientra tra i “diritti umani”. Nel 1948 l’Assemblea ONU non ha incluso tra i diritti umani né il comma specifico proposto dal Cile sulla tutela della vita prenatale, né tantomeno il testo alternativo sostenuto dal Libano che includeva tale condizione. Se dunque non esiste un “diritto umano”a tutela della vita prenatale, allora si dissolve la presunta base giuridica e costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza in bioetica. Inoltre, se da un lato non c’è il riconoscimento di questo diritto come “diritto umano”, dall’altro è invece riconducibile nell’ambito di questa categoria  il “diritto alla salute della donna”, intesa secondo i principi e i limiti accettati dagli stati moderni, che venne tutelato per la prima volta proprio alla fine degli anni ’70 con la l. 194/78, antesignana nella tutela concreta dei diritti umani di una donna che ancora viveva un ruolo decisamente di inferiorità rispetto all’uomo.
 
Un’altra incongruenza sta nella disuguaglianza strutturale esistente tra l’esercizio di diverse attività: alcune professioni elettive(come fare il giudice o intraprendere la carriera militare o fare il giornalista) non prevedono l’obiezione di coscienza rispetto ai doveri richiesti dai compiti istituzionali, mentre altre(come fare il ginecologo o il ferrista in ginecologia) sì. E allora non ci si può non chiedere come mai sia consentita questa disparità. Chi sceglie di fare il ginecologo deve impegnarsi, prima di tutto, a tutelare la salute della donna. Interrompere una gravidanza non desiderata significa ancora la stessa cosa, proteggere la salute della donna e se qualcuno non pensa che sia così forse farebbe meglio a rileggersi il testo della legge. E allora sarebbe più che opportuno che, al pari di altre professioni, anche chi si trovi a svolgere quelle sanitarie abbia l’obbligo di non sottrarsi ai compiti che gli derivano dal suo ufficio. Anche perché, per questa via, l’obiezione ha finito col diventare espressione  di un diritto alla intolleranza ideologica, poiché non di rado l’obiettore vede il non-obiettore come persona immorale e l’obiezione “si traduce in uno strumento di negazione del principio di laicità, in quanto consente al titolare  di una funzione pubblica di anteporre le proprie convinzioni personali al pieno rispetto dei suoi doveri istituzionali”.
Infine, l’obiezione si identifica con un diritto legalmente codificato alla disubbidienza civile arrivando così a una situazione paradossale: uno Stato che su mandato dei cittadini indica dei comportamenti vincolanti e contemporaneamente consente che minoranze, più o meno ristrette, possano rifiutarsi di prestare determinati servizi opponendosi in questo modo alla volontà popolare, in contrasto con la logica della democrazia. Nello specifico, la volontà della maggioranza, che ha chiesto la legalizzazione dell’aborto, verrebbe annullata da una maggioranza di medici obiettori! E’assolutamente abominevole che lo Stato riconosca il diritto all’inosservanza alle proprie leggi perché ritenute immorali. Una legge può essere senz’altro criticata, ma non può da ciò discenderne “il riconoscimento di una ripugnanza verso leggi dello Stato” e “la tutela di questa ripugnanza”.
Pertanto, nell’ambito di un ordinamento giuridico accettato nel suo complesso anche dagli obiettori, questi hanno semmai la facoltà di proporre l’abrogazione o la revisione delle norme che ritengano inaccettabili in base anche alle idee morali di chi le contesta. Dunque ben potrebbero avanzare proposte di modifica legislativa, senza tuttavia essere inosservanti delle leggi inesistenti. Ma il riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza si traduce nella legalizzazione di una pretesa alla inosservanza delle leggi che troverebbe un fondamento solo in ragioni etico-politiche e dunque extragiuridiche in inevitabile contrapposizione con l’ordinamento stesso.
 
E allora appare piuttosto chiaro come, allo stato attuale, il problema non è se i numeri che vennero decantati negli anni ’70 circa l’entità del fenomeno degli aborti clandestini fosse gonfiato o meno; e la problematica da risolvere non riguarda neppure chiarire se le disfunzioni dei consultori familiari in continua diminuzione e le difficoltà di abortire legalmente siano il diretto o indiretto riflesso del ricorso sempre più massiccio, da parte del personale sanitario preposto, all’obiezione di coscienza.
A parere di chi scrive, il nodo gordiano risiede proprio nella peculiarità delle critiche mosse dal prof. Carlo Flamigni. Una legge che disciplina la materia della interruzione volontaria della gravidanza c’è stata, tra non molto compirà trentasei anni e, sia che piaccia sia che non piaccia, va rispettata e va eseguita al pari di ogni altra. 
Personalmente credo che appellarsi all’obiezione di coscienza da un lato sia troppo comodo, soprattutto in ragione del fatto che a chi vi ricorre non è richiesto in alcun modo di dare prova che la propria opposizione sia reale e profonda; mentre dall’altro costituisca abuso e manipolazione di un potere concentrato nelle mani di pochi. Scegliere di svolgere professioni che vengono dai più definite “privilegiate”, come quelle del medico o dell’avvocato,  fornisce a chi le esercita un coltello che viene saldamente tenuto dalla parte del manico perché, comunque, necessarie e indispensabili per certi aspetti determinanti della vita delle persone. Ritengo quindi che chi, durante il suo percorso, decida di intraprendere queste strade, debba necessariamente abbracciare una missione e essere dotato di una profonda umanità che gli permetta di avere compassione, ovvero di “cum patire”, patire insieme con, soffrire insieme con chi ha di fronte così da condividerne le difficoltà e farle proprie. Se questo é il motore che dovrebbe far muovere certi ingranaggi, va da sé che non ci può essere alcun spazio per l’obiezione di coscienza. Uno: perché dare aiuto indistintamente significa innanzitutto rispettare quel principio di uguaglianza sancito all’art. 3 Cost. per cui non ci sono persone di serie A e persone di serie B. Due: perché la grandezza di un uomo, o di una donna, la si misura sulla base della sua sensibilità e disponibilità, e non certo per titoli ed esami. Tre: perché ad essere persone per bene ci si guadagna sempre e si è tali quando non ci si nega, ma al contrario ci si dà senza riserve a chi ha bisogno del nostro aiuto, con la consapevolezza che noi siamo fortunati a poter fare quello che facciamo e ad avere avuto opportunità che ad altri il destino, o più semplicemente la società, ha negato.

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