La tragedia dei migranti: a Lampedusa 111 morti ed ancora 200 dispersi

NELLE PRIME ORE DEL 3 OTTOBRE UN BARCONE AL LARGO DI LAMPEDUSA, A POCHI KM DI DISTANZA DALL’ISOLA DEI CONIGLI, HA PRESO FUOCO ED HA TRASCINATO SUL FONDO CENTINAIA DI MIGRANTI.

di Mosè Tinti  (praticante avvocato)

Intorno alle 7,00 del mattino di giovedì 3 ottobre è arrivato un allarme alla Guardia Costiera a Lampedusa: un barcone brucia al largo della costa dell’isola dei Conigli, centinaia di persone sono immerse in un mare che scotta, denso di gasolio.

Prima della Guardia Costiera, arrivano sul posto i pescherecci, con uomini e donne partiti per andare al lavoro e che, invece, si riscoprono eroi, salvatori estremi ed indefessi, inconsapevoli dimostrazioni ed orgoglio di una popolazione, quella italiana, non solo buona a lamentarsi, ma pronta al sacrificio e a tirarsi su le maniche senza porsi domande nè questioni  e senza chiedere nulla in cambio, quando c’è da aiutare chi ne ha bisogno. E di certo non è sbagliata la candidatura di Lampedusa al premio Nobel per la pace, proposta da Alfano.

Mani tese ad afferrare e sollevare corpi stremati, che dopo ore trascorse in mare hanno resistito al sale, alla corrente, al carburante sparso sul mare intorno a loro che andava a finire nei polmoni e nello stomaco ogni volta che aprivano la bocca nel tentativo di respirare ossigeno.

Ore lunghe, angoscianti, forse anche piene di rimorso, per i superstiti di quel barcone con 500 anime a bordo. Si, perchè nella notte, il viaggio della speranza era quasi arrivato a destinazione, ma le luci delle barche che si scorgevano a distanza non sembravano centrare col loro fascio anche quella scatola con dentro disperati stipati come sardine intenti ad urlare e a sbracciare nella speranza di essere visti e portati sulla terraferma. Quante navi saranno scorse nell’impossibilità di avvistare quel barcone, quanti fari, quante luci avranno fatto assaporare ai migranti l’idea che quell’odissea era finalmente arrivata a termine, prima di lasciare che l’idea esiziale prendesse corpo, forma e sostanza? “Diamo fuoco ad una coperta perchè in questo modo le navi noteranno la nostra presenza grazie alle fiamme”.

Brucia la coperta, inizia a bruciare anche la loro imbarcazione: “Donne e bambini vadano a riparo sotto la stiva”, dicono gli uomini credendo di riuscire a domare l’incendio e convinti che comunque quello sia il posto più sicuro. Il combustibile alimenta le fiamme che divengono incontrollabili ed entra acqua velocemente così come altrettanto velocemente l’imbarcazione scende sotto il livello del mare, affonda e trascina giù con sé a 47 m di profondità le donne ed i bambini rimasti intrappolati nella stiva che avrebbe dovuto proteggerli dalle fiamme. Circa 200 si salvano, gli altri sono o morti o dispersi: quasi solo uomini tra i superstiti.

E magari tra i superstiti, avvolto in una coperta termica con lo sguardo fisso su qualche punto lontano, c’è un ragazzo che ha lasciato la casa e non ricorda bene il motivo che lo ha spinto fin lì, si ricorda solo che vuole inseguire il sogno di una vita migliore rispetto a quella che gli prospettava il suo paese. E’ lontano da tutte le polemiche che seguiranno, non conosce la Bossi-Fini, non sa i rapporti di forza dell’Unione Europea, sa che la sua famiglia aveva speso i risparmi di una vita per fargli fare quel viaggio e si sente comunque in dovere di ripagare lo sforzo suo  e di chi gli era vicino. Ed allora capisce che dovrà essere forte se vorrà dare un senso a tutto questo, così, ogni volta che starà per perdere la speranza, penserà agli occhi di sua madre, alle sue raccomandazioni prima di partire, al suo saluto, alla sua mano che gli scorre sulla guancia e affronterà la vita con quella carezza ancora sul viso.

 

 

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