La società dell’avere

articolo di Lucia Moglie, Psicologa psicoterapeuta

Scrivo in merito al fatto dello stupro di Palermo, poiché leggendo qua e là sui social mi sono imbattuta in un post con una lettura diversa, trasversale, a mio dire più complessa.

Massimiliano Cividati, regista, formatore e attore di fama in quel di Milano, commenta i fatti ponendosi da genitore e parla di presunto “controllo genitoriale”, di paura e di responsabilità sociale che non esiste più. In particolare però opera un taglio a mio dire molto interessante nel momento in cui guarda allo stupro non come a un fatto sessuale, bensì a un fatto di possesso. E sul possesso nasce una digressione potenzialmente infinita. “Tu, mio caro, non hai il diritto di avere ciò che vuoi, ma, tutt’al più, quello di cercare di essere e diventare ciò che vorresti” dice Cividati. Francamente, in una società come quella odierna, in cui l’essenza del genitore è costituita dal dare, dal riempire, dal soddisfare i propri figli, diventa inevitabile una cultura generazionale dell’avere.

Frasi come “i bambini di oggi sono viziati” o “i giovani oggi hanno tutto” ci riempono le orecchie da decenni, ma come siamo arrivati a questo?Nei passaggi generazionali si corregge il tiro in base a ciò che ingiustamente si è subìto: i genitori, frustrati nei loro bisogni soddisfatti in modo carente, hanno iniziato a dare ciò che loro stessi non avevano ricevuto; meccanismo comprensibile, forse anche un po’ automatico, ma di natura scarsamente consapevole.

Chi ci dice che i No che costoro hanno ricevuto fossero moralmente sbagliati? Nessuno.

Ciò che probabilmente era a quei tempi carente o inadeguato era il sistema di comunicazione, tra spiegazioni, motivazioni, contestualizzazione dei No dati ai figli, in un sistema familiare in cui tra genitori e figli era evidente un confine netto, uno sbarramento alla comunicazione stessa. Ebbene i figli dei suddetti genitori sono diventati dei recipienti da riempire con aquisti, attività, carriere, opportunità; tutto è a loro disposizione in una libertà di accedere sconfinata. Viziati o liberi che siano, questi figlioli crescono con una convinzione: che possono avere e che quindi devono avere.  Eccola la trappola, perché poi la vita tirannica promette ma non mantiene, offre ma poi priva, a seconda di moltissimi fattori imprevedibili che si sommano e sovrappongono, tra cui anche il caso.

Un effetto collaterale è quindi la frustrazione dei propri bisogni, quella frustrazione che i loro genitori tanto volevano evitargli. Negli ultimi anni del secolo scorso circolò nel settore un bellissimo testo di Asha Phillips,  “I no che aiutano a crescere”, un libro davvero avveneristico che testimoniò che qualcosa di rivoluzionario si stava muovendo; nei decenni successivi numerosi sono stati gli spunti in tale direzione nella scienza educativa e nella psicologia dell’età evolutiva, tali da andare a definire un vero e proprio filone, che sosteneva il bisogno evolutivo di dire no ai giovani, per la loro crescita, per il loro benessere.

Questa concezione reputa che il No sia estremamente utile per porre al bambino dei limiti all’onnipotenza, per figurargli un senso di libertà estesa, ma limitata dal sociale, per insegnargli a tollerare la frustrazione. Può esserci libertà di avere senza incorrere nella pretesa di avere. Ciò in cui i genitori si devono cimentare a mio dire non è meramente imparare a dire No ai propri figli, ma imparare come farlo.

Non possiamo cioè riavvolgere la pellicola e tornare ai tempi in cui il No non era motivato, né spiegato, proprio in coscienza del fatto che anche il bambino è un piccolo uomo e in quanto tale da un lato merita di comprendere e dall’altro è tenuto a farlo. Questa occasione che il genitore offre a suo figlio in realtà testimonia una stima del genitore nei confronti del figlio (lo reputa in grado di) e un aumentato spessore della relazione tra loro. Così si potrà pensare di combattere il dover avere ormai diffuso e crescente tra le nuove generazioni, nonché ridurre gli effetti collaterali che esso comporta.

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