La più giovane condannata americana alla pena di morte si toglie la vita

RIFLETTENDO SULLA VITA E SULLA MORTE DI PAULA COOPER

di Barbara Fuggiano

iiedicgeLeggendo la sua storia, mi sono chiesta cosa abbiano pensato tutte le persone che nel 1986 si attivarono per contestare la sua condanna a morte quando hanno appreso la notizia del suo suicidio.

Paula Cooper. Aveva solo 15 anni quando, con la complicità di altre tre minorenni, aggredì un’insegnante di religione di 78 anni, Ruth Pelke, per un bottino di dieci euro e una vecchia auto. Fu l’unica ad essere condannata alla pena di morte, all’epoca ancora prevista dallo Stato americano dell’Indiana per chi avesse compiuto più di 10 anni. Si trattò della più giovane condannata in attesa del boia.

Per alcuni, era un “mostro” per il quale non aveva senso parlare di “riabilitazione”, ma per molti altri si trattava della vittima di un’infanzia di abusi e di un sistema giudiziario fortemente discriminatorio.

Il contrasto all’odio razziale e alla pena di morte fecero, infatti, da sfondo per un movimento di solidarietà che attraversò tutti i continenti, con la speranza di salvare la minorenne dal braccio della morte. Nessuno Tocchi Caino, tutto il Partito Radicale italiano, Amnesty International e il Parlamento Europeo (con una risoluzione) si attivarono contro la crudeltà della condanna inflitta alla minorenne e persino Papa Giovanni Paolo II e il nipote dell’anziana vittima invocarono la grazia. Ci pensò la Corte Suprema americana a definire “crudele e incostituzionale” la pena di morte per una quindicenne. Lo Stato dell’Indiana fece, allora, il minimo sindacale, alzando da 10 anni a 16 anni l’età minima per la pena capitale, portando a ridurre la condanna di Paula a 60 anni di carcere.

A questo punto, mi viene spontaneo cercare di capire le ragioni delle disparità della “giustizia sociale”. Perché per Paula così tanta solidarietà (nel 1986) e per altri rei così tanto odio che spinge a invocare la pena di morte anche in quei Paesi – come il nostro – che l’hanno abbandonata (oggi)? È la giovane età a condizionare l’opinione pubblica? L’età della vittima? Le considerazioni del nipote dell’anziana uccisa, che, dopo aver conosciuto Paula, si era detto fervente abolizionista e pacifista? Perché l’ingiustizia della pena capitale non ha lo stesso peso, a prescindere dal singolo caso e dal singolo reato, pur rimanendo oggettivamente disumana, crudele indegna?

Mi sono chiesta se la storia di Paula possa aver influenzato l’opinione dei più e la compassione si sia mescolata a solidarietà e abolizionismo. Paula, infatti, nasce come vittima di incesto e cresce in un ambiente sociale e familiare particolarmente difficile, che certamente non l’ha aiutata a valutare la crudeltà del proprio agire quando, per quattro soldi, ha pugnalato decine di volte Ruth Pelke.

Se un passato difficile è bastato a comprendere (non a giustificare) un gesto così crudele, perché il mondo diventa cieco di fronte alle azioni di altri, senza volerne indagare le ragioni personali e la storia che c’è dietro ogni persona? Perché per Paula (e per pochi altri casi) si è lottato per una “seconda possibilità” e in tantissimi altri casi, anche per azioni meno gravi (e di molto), si sbarra ogni porta e si rifiuta l’idea di poter offrire un’altra chance?

Credo che la storia di Paula Cooper possa insegnare ancora tanto e debba far riflettere più di quanto si stia facendo.

Quasi due anni fa, il 17 giugno 2013, la Cooper era uscita di carcere per buona condotta, dopo un’intera vita passata dietro le sbarre a cucinare per tutti.

In un’intervista del 2004, la Cooper aveva detto: “Ognuno di noi ha la responsabilità di fare il bene o il male, e se si fa del male si deve essere puniti. La riabilitazione viene prima di tutto da noi stessi. Se non sei pronto per essere riabilitato, non lo sarai”.

E lei una seconda possibilità se l’era concessa.

I primi anni di carcere non erano stati affatto facili. 23 violazioni del regolamento, di cui solo 10 di basso livello, e una condanna a 3 anni di isolamento per l’aggressione ad una guardia penitenziaria. Ma, poi, la svolta. “Ero molto amareggiata ed arrabbiata, così mi ficcavo spesso nei guai. Poi un giorno ho deciso che dovevo iniziare a calmarmi” si era detta.

Sembra che, da quel momento, in carcere avesse dato il meglio per conquistarsi questa seconda possibilità per la quale in molti avevano lottato e che – immagino – deve averle dato un senso di responsabilità difficile da gestire. Aveva studiato, aveva ottenuto il diploma di infermiera e finalmente sembrava pronta a una “nuova vita” o, meglio, a iniziare la “vita vera”. Aveva in programma persino di collaborare con l’organizzazione contro la pena di morte fondata proprio dal nipote della Pelke.

Lo scorso 26 maggio 2015, invece, la polizia l’ha trovata fuori dalla propria residenza di Indianapolis, senza vita. Probabilmente si è suicidata, sparandosi in testa. Cosa non ha funzionato?
Sembra che Paula avesse confidato al nipote della Pelke di aver paura della vita da libera: “non so scrivere un assegno, non ho mai pagato una bolletta” ha detto.

Non sappiamo quanto la paura di sentirsi sola e inadeguata in un mondo nel quale è stata catapultata a 45 anni abbia pesato e probabilmente è anche giusto non saperlo mai. Dovremmo, però, riflettere sul fatto che non è affatto raro che i reclusi si sentano persi nel mondo “libero” dopo aver vissuto anni in un sistema (quello carcerario) permeato da un senso del tempo e del spazio nonché da regole completamente diverse.

Basta solo pensare che nell’istituto sono gli altri a dire al condannato cosa fare e quando farla, mentre fuori egli torna ad essere padrone e responsabile della propria vita e delle proprie scelte. Non è forse anche questo il senso di maturità che si intende trasmettere i figli, aiutandoli a prendere coscienza di sé affinché facciano “il bene” e non “il male” – per riprendere le parole di Paula – e siano in grado “di camminare da soli”? Un sistema penitenziario come quello moderno, come il nostro, è davvero in grado di raggiungere gli obiettivi che si è dato?

Vi lascio con le parole di Nils Christie, giurista norvegese padre dell’abolizionismo penale, scomparso proprio il giorno successivo alla morte di Paula, il 27 maggio: Il vero pro­blema non è la droga, ma il modo scel­le­rato in cui si pensa di com­bat­terla. Ci sono molte cose pes­sime al mondo, cose che io per­so­nal­mente disap­provo, ma la que­stione è se esse costi­tui­scano dei reati oppure no: è un pro­blema di defi­ni­zione. Noi dob­biamo deci­dere cosa è cri­mi­nale e cosa non lo è. Cosa asso­mi­glia al cri­mi­nale: il cat­tivo, l’incomprensibile, l’involontario? Niente di tutto que­sto lo è neces­sa­ria­mente, c’è una grande libertà nelle defi­ni­zioni. La mag­gior parte dei comporta­menti che con­si­de­riamo cri­mi­nali hanno a che vedere con dei con­flitti, ma i con­flitti pos­sono anche essere mediati. Pos­siamo leg­gerli come le con­trad­di­zioni insite nella natura umana. Dob­biamo lavo­rare su vie alter­na­tive al sistema delle pene, dob­biamo occu­parci di ricon­ci­lia­zione e di com­pen­sa­zione delle vit­time. Nella vita civile accade che sorga un con­flitto, segno di un disa­gio, e che si entri in con­tra­sto con la poli­zia, con le isti­tu­zioni. A quel punto non dob­biamo essere inte­res­sati alla solu­zione più facile, ossia alla vit­to­ria dello stato che scon­figge il cri­mi­nale. Rispon­dere a un disa­gio con la puni­zione signi­fica legit­ti­mare un sistema di paure a par­tire dalla paura di chi punisce”.

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