Kurt Cobain, Angelo dell’inferno

                                                05 APRILE 2013-Rosicchiandomi le unghie nervosamente, ascolto About a girl dall’album MTV Unplugged in New York. Guardo l’orologio: le 23.15. Tra pochi minuti sarà il 5 aprile, il giorno della morte di Kurt Cobain. Il mito della Generazione X, la mia generazione.
Cobain, per i pochi che non lo sapessero, era il leader dei Nirvana, storica rockband di Seattle, la città della svolta musicale americana negli anni ’90.
Cobain era bellissimo, malinconico, geniale, ma già molto tempo prima del fatale gesto, era privo di qualsiasi stimolo vitale.

Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla, nel leggere e nello scrivere, da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla cominciare, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddy Mercury, a lui la folla lo inebriava, ne traeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo, ma per me non è così. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti, nè nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco.”

Queste le sue ultime parole, scritte su un foglio che Kurt infilzò con una penna e lo mise dentro una piantina nella sua serra, la stessa in cui fu trovato 3 giorni dopo la sua morte, il 5 aprile 1994.
Il 24 e 25 febbraio 1994 i Nirvana suonano a Milano, ultima tappa del tour italiano. Cobain appare stanco, assente, distante. Amici del cantante riferiscono che quella sarà l’ultima tournee dei Nirvana: Kurt non vuole fare più concerti. Decide allora di prendersi qualche giorno di riposo a Roma dove incontra la moglie, Courtney Love, che non vede da quasi un mese. L’atmosfera è tesa: Kurt ha parlato di divorzio e Courtney è nervosa.
La mattina del 4 marzo 1994 Courtney trova Kurt privo di coscienza sul letto. Viene portato subito al pronto soccorso del Policlinico Umberto I dove gli viene praticata una lavanda gastrica che espelle 60 pastiglie di Rohypnol.
Il 30 marzo 1994 Cobain accetta di entrare in un centro di riabilitazione a Los Angeles, ma solo due giorni più tardi prende un aereo per tornare a Seattle, ma non dalla moglie.
Il 3 aprile Courtney contatta un investigatore privato per ritrovare il marito, senza sapere che l’ha già perso da tempo.
Il 5 aprile di diciannove anni fa Kurt sale nella serra, posta sopra il garage della sua villa, chiude a chiave la porta e scrive quella famosa lettera, dopo aver assunto oltre un milligrammo di eroina e poi si spara in testa con il suo fucile.
Il corpo della rockstar verrà trovato l’8 aprile da un elettricista che stava effettuando un controllo sull’impianto di casa Cobain: sarà lui a telefonare alla radio di Seattle KXRX che alle 9.40 darà l’annuncio choc: Kurt Cobain è morto.

Son passati quasi vent’anni da quel giorno eppure ancora c’è chi non crede alla tesi del suicidio. Infinite supposizioni circonderanno la morte del leader dei Nirvana: complotti che arrivano fino alla tesi del delitto commissionato dalla moglie di Kurt, Courtney Love. Tesi questa sostenuta anche dal padre di Courtney – che descrive la figlia come vendicativa e malvagia – e dall’investigatore Tom Grant.La morte di Cobain arriva proprio nel periodo di maggiore successo dei Nirvana, proprio dopo la registrazione “unplugged” per MTV che è rimasta nella storia.

Di lui ci resterà il volto angelico del ragazzo con gli occhi tristi che ha incantato, e continua ad incantare, con la sua musica e le sue parole milioni di fans in tutto il mondo.

SABRINA SALMERI

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