Il Gender Pay Gap e gli strumenti di contrasto

MODIFICA AL CODICE DELLE PARI OPPORTUNITA’ PER COLMARE TALE FENOMENO

di Irene Maria Pizzi **

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Ubi societas ubi ius. Da dove proviene la realtà sociale per cui le donne, a parità di inquadramento professionale, guadagnano meno degli uomini? Da un lato c’è aspirazione minore, dall’altro la legislazione precedente ha segnato i ruoli maschili e femminili della società. Il principale dogma degli storici del diritto è la consapevolezza che ogni legge vigente in una epoca non vale esclusivamente fino al giorno in cui è abrogata. Prima del 1948, il regime fascista produsse tanta legislazione sul rigido confinamento delle donne in ruoli definiti e precisi, strettamente legati da un lato all’ambito privato e domestico e dall’altro alla caratteristica della capacità riproduttiva. Tali leggi hanno strutturato la società dell’epoca, ma continuano a condizionare le generazioni successive sebbene la Costituzione le abbia espunte dall’ordinamento. Ancora oggi in Italia ci sono moltissimi ambiti lavorativi a dominio femminile a viceversa. L’idea del ruolo femminile del regime fascista è ben espressa da Gentile: “la donna è del marito”. Questa mentalità nel 1934 ha prodotto dei provvedimenti legislativi che hanno regolato il lavoro femminile: le donne furono espulse da tutti gli incarichi pubblici, vennero compresse le tutele sulle condizioni di lavoro femminile nelle fabbriche, in agricoltura si stabilì che fossero pagate il 40% del salario degli uomini. Gli ordini professionali non riconoscevano la abilitazione per diverse professioni (ad esempio le avvocatesse). Il know-how professionale era limitato a certi ambiti. 

Queste tabelle di classificazione professionale che il fascismo fece per legge, ancora oggi condizionano la struttura sociale e giuridica della nostra società. 

Sintomo di attualità del problema è costituito dal “tetto di cristallo”. Un aforisma che traduce il concetto per cui i vertici delle maggiori organizzazioni statali e private raramente sono femminili. Un segnale d’allarme che porta ad interrogarci sulla condizione di arretratezza sociale e di insufficienza di tutele giuridiche per le lavoratrici che spesso si ripercuote sulla generalità dei consociati. Infatti, una decisione prodotta da un organo maschile è diversa da quella composta da pari uomini e donne, poiché è la compresenza dei due generi negli organi di rappresentanza che determina il tipo di decisione. I Paesi in cui la rappresentanza femminile è più avanzata (ad esempio in Ruanda) hanno prodotto politiche sociali diverse da quelli in cui è meno evoluta. È quindi interesse dell’intera collettività (in caso di ente pubblico) o dell’intera organizzazione privata, che la decisone sia presa da organi rappresentati paritariamente dai due generi per giungere ad una visione plurale e completa.

Le donne sono limitate nella possibilità del dovere di contribuire alla ricchezza del Paese con la loro competenza. Il punto è lo spreco delle risorse.

Il vero problema italiano: Gender pay gap o unemployement femminile?

Alla luce dell’analisi dei dati raccolti a livello europeo, ad emergere in modo chiaro è il cosiddetto “effetto paradosso”: l’Italia si posiziona (5%, a fronte di una media del 10%) tra i Paesi con il Gender Pay Gap minore d’Europa.

Al contrario, paradossalmente, rispetto al tasso medio di occupazione OCSE per la forza lavoro femminile, che è prossimo al 70%, l’Italia è di quasi 20 punti sotto. 

Il divario retributivo è una costante in tutte le economie mondiali, anche le più aperte al mondo femminile, ed è una conseguenza di numerose disuguaglianze che le donne devono affrontare nell’accesso al lavoro, nella progressione e nei premi. Ciò che deve far riflettere, invece, è il numero degli inoccupati di sesso femminile: in Italia una donna su due non lavora e non è in cerca di lavoro. La pandemia non ha che aggravato una situazione già difficile: il numero di donne che hanno smesso di lavorare a causa del Covid-19 è stato più del doppio degli uomini e sono sempre uomini il 70% dei nuovi occupati nel 2021. 

Le cause

Oltre alla suddetta segregazione settoriale, che possiamo classificare come causa di derivazione sociale-giuridica, se ne annovera una di carattere squisitamente pratico-concreta: il Work life balance, ovvero l’equilibrio tra vita e lavoro.

Le donne sono ancora troppo spesso costrette a scegliere tra lavoro e famiglia. Le ragioni possono sintetizzarsi in questi termini:

  1. Pochi asili nido. Solo il 25,5% dei bambini riesce ad accedervi. 

  2. Troppe responsabilità nelle cure domestiche e familiari in capo ad esse. 

 

Proposte & Riforme 

Il 26 ottobre di quest’anno, il Senato ha approvato all’unanimità il Disegno di legge sul ‘Gender pay gap’ apportando altresì rilevanti modifiche al Codice delle pari opportunità. Come riporta l’articolo 4, l’obiettivo è ridurre il divario di genere legato «alle opportunità di crescita in un’azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». Il Ddl si concentra sugli enti privati poichè la riduzione dei differenziali salariali ed occupazionali di genere chiama in causa preminentemente il settore privato e le dinamiche retributive all’interno delle imprese.

Tra le novità più importanti si annoverano l’introduzione di strumenti per favorire la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro che possiamo in questo modo sintetizzare:

  • Estensione dell’obbligo di redigere il rapporto circa la situazione del personale anche alle aziende, sia pubbliche che private, che abbiano più di 50 dipendenti (mentre oggi è prevista solo per chi ne ha più di 100). La modifica della soglia dimensionale comporta un ampliamento della platea di imprese tenute a comunicare i dati per genere su remunerazione e inquadramento dei propri dipendenti. Un ampliamento assai significativo, poiché si passa dalle circa 13 mila imprese alle 31 mila. L’aspettativa è che l’estensione dell’obbligo renda più efficace il perseguimento dell’obiettivo dell’uguaglianza di genere nelle retribuzioni. Infatti, alcuni studi sul Regno Unito, che ha introdotto per le imprese con più di 250 dipendenti l’obbligo di pubblicare annualmente i dati relativi al gender pay gap, evidenziano che la politica di trasparenza ha ridotto il differenziale salariale di genere nelle imprese interessate dagli obblighi rispetto a quelle che non lo sono. Infine, viene aggiunta la possibilità, da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali, di accedere ai dati del suddetto rapporto. 
  • Introduzione della Certificazione della parità di genere quale riconoscimento alle aziende che si muovono nella direzione di maggiore parità tra i generi. I dettagli sui requisiti da soddisfare per ottenerla sono demandati a futuri decreti. La Certificazione sarà accompagnata, peraltro, da un conseguente meccanismo di premialità consistente in uno sgravio contributivo fino a 50mila euro all’anno per ciascuna azienda che incentiva i datori di lavoro a prevenire i potenziali divari retributivi e a promuovere la cultura delle pari opportunità. Inoltre, la certificazione di parità garantirà un punteggio premiale nell’assegnazione di fondi e nella partecipazione a gare e avvisi banditi dalle amministrazioni. 
  • Estensione, per le aziende pubbliche, della legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” negli organi collegiali di amministrazione delle società quotate in Borsa, ossia, la regola dei due quinti di presenze femminili nei consigli di amministrazione per i primi sei mandati successivi all’applicazione della norma.
  • Modifica della nozione di discriminazione diretta e indiretta. In particolare, la novità certamente più interessante attiene la modifica della nozione di “discriminazione indiretta” sul luogo di lavoro. Alla suddetta, saranno unite, ex art 2 del Codice delle pari opportunità, quelle di “natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro”, con il relativo divieto di porre in essere: ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti. L’obiettivo è evitare che si crei una situazione di “svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori”, una “limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali” oppure “dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”. Qui il legislatore ha centrato pienamente l’aspetto che confligge più di ogni altro con le vite concrete delle lavoratrici specie se madri, e surrettiziamente introducono differenti trattamenti che mettono in una situazione di svantaggio la donna lavoratrice. Per fare un esempio concreto: un’organizzazione oraria del lavoro che preveda di essere inderogabilmente sul posto di lavoro prima dell’orario di apertura dell’asilo nido o della scuola, può sembrare neutrale ma non lo è per chi ha figli piccoli, così come lo spostamento in sedi lontane. Sono proprio questi i requisiti apparentemente ‘neutri’ che possono essere utilizzati al fine di discriminare

È una misura sufficiente?

Il recente intervento normativo va nella direzione giusta. Rappresenta non solo un passaggio significativo verso il contrasto alla disuguaglianza di genere e in particolare alla disuguaglianza salariale, ma anche un punto di partenza verso l’attuazione effettiva dell’articolo 37 della Costituzione in tema di parità retributiva tra uomo e donna e di opportunità di crescita economica del Paese. Ma, è chiaro che non può bastare.

Il “premio” monetario suggerisce che serve ancora tempo per arrivare al momento in cui l’uguaglianza di genere non sia considerata un costo per le imprese (per cui devono essere compensate), ma un vantaggio. Bisogna agire affinchè nasca una cultura diversa, capace di colmare il gap anche nelle attività private attraverso una formazione defiscalizzata. 

Un segnale positivo è sicuramente costituito dai 38,5 miliardi di euro stanziati dal PNRR per ridurre proprio il “gender pay gap”. Questi verranno impiegati principalmente su due fronti: imprenditorialità femminile e al potenziamento degli asili nido e delle scuole dell’infanzia.

Contrastare l’emarginazione femminile nel lavoro non è un mero esercizio di parità, ma è un investimento per il Paese in termini di Pil, di qualità della vita e giustizia sociale.

**ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE  DELLA CATEGORIA “DIRITTO DEL LAVORO ” del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata

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