Gaio Cesio, anconitano Doc più antico

RAFFIGURATO IN STELE A DURAZZO

ANCONA – di Fernando Frezzotti – La plurimillenaria vocazione cosmopolita di Ancona è nota. E sempre più spesso capita che, dagli archivi e/o dai musei di qualche città sparsa per la “macroregione” Adriatico-Ionica, faccia la sua comparsa qualche nuova e gradita conferma. Conferme che mettono impietosamente a nudo la stridente contraddizione che caratterizza gli anconitani di oggi: mai come nella nostra epoca, in cui tutti possiamo disporre di tutte le informazioni sempre e ovunque, le differenze etnico/linguistiche appaiono come una barriera insormontabile al punto che l’anconitano è diventato sinonimo di persona chiusa e diffidente! Non così due millenni fa, in cui nessuna differenza di razza, di lingua, di usi e costumi, di pesi e misure, impediva ai nostri antenati di confrontarsi, scambiare idee e mercanzie, interagire in molti modi, apertamente e quotidianamente.
A tal proposito pochi sanno da tanto tanto tempo, presso il museo dell’albanese Durazzo, all’epoca “Epidamnos/Dyrrachion”, fa bella mostra di sè una stele funeraria, risalente al II o al I sec. a.C.,  di un nostro illustre concittadino. Si dovette trattare di una personalità di una certa notorietà al punto che, al di là dell’Adriatico dove, evidentemente, occorse il trapasso, nella stele che gli venne dedicata, del “nostro” poté addirittura essere omesso il cognome. Di chi parliamo? Di Gaio Cesio … l’Anconitano, quello che tutti conoscevano per la sua provenienza e cittadinanza e per il quale, evidentemente, non occorreva essere più precisi. La grafia dell’epigrafe è in greco, segno che, in quell’epoca, quello era l’idioma corrente a Durazzo.

Vi si legge: ΓΑΙΕ ΚΑΙΣΙΕ – ΑΝΚΩΝΕΙΤΗ – ΧΡΙΣΤΕ ΧΑΙΡΕ

Traduzione: GAIO CESIO – ANCONITANO – SALVE

(vedi foto in alto in questa pagina).


La scena rappresentata nella stele è piuttosto struggente. C’è chi nel personaggio più piccolo avrebbe scorto la presenza di un fedele, minuto servitore. E chi, come il sottoscritto, propende a intravedervi una figura filiale.

Ma ci potrebbe essere dell’altro. Ricapitolando: Gaio Cesio era noto a tal punto per essere “anconitano” che, sull’epitaffio della sua stele funeraria si è potuto persino omettere quale fosse il suo cognome. Questo accadeva a Durazzo nella regione che i Romani chiamavano Illyricum. Ci si potrebbe chiedere, come faceva Gaio Cesio a essere così noto? Si sarà forse trattato di un personaggio pubblico? Nella sua/nostra città d’origine egli potrebbe verosimilmente aver ricoperto, per un lungo periodo, incarichi importanti, tali da porlo così in vista? Questa ipotesi appare piuttosto probabile, dato che Gaio Cesio sembrerebbe essere ritratto indossare una toga sopra la tunica, circostanza che verrebbe a confermare il rilievo pubblico della sua figura.


Ma ci si soffermi ora a riflettere sul seguente interrogativo. Poiché Gaio Cesio, all’“estero”, era noto come l’“anconitano”, quando si trovava nella sua città, Ancona, in quale modo avrebbe potuto essere conosciuto e nominato dai suoi stessi concittadini? Chiaramente la sua provenienza, almeno in “patria”, era nota e pertanto avrebbe potuto essere tranquillamente omessa. Tuttavia, se lo si fosse dovuto identificare precisamente e formalmente, ad esempio presso un qualche monumento o edificio pubblico, si sarebbe dovuto ricorrere a una modalità, al tempo stesso, rigorosa e informale. Questa modalità esiste e fa riferimento all’utilizzo del patronimico. È aderendo a questa chiave di lettura che si potrebbe proporre il riempimento della lacuna presente nell’epigrafe musiva, collocata presso le vasche termali (il cosiddetto “balneum”) a ridosso dell’anfiteatro romano di Ancona (fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C.), secondo la sequenza riprodotta nelle immagini due immagini di questa pagina).

Com’è possibile riscontrare, la lacuna di cui soffre l’epigrafe alla riga superiore potrebbe essere colmata, senza alcun tipo di forzatura, con l’inserimento delle lettere “G. CA” che, come è facile riscontrare, sarebbero idonee a identificare un “GAIO CESIO”. Certo, si dirà, non c’è alcuna certezza che i due “Gaio Cesio” siano gli stessi. Tuttavia un piccolo passo in tale direzione è stato compiuto e un altro è possibile compierlo. Anzi, forse è doveroso compierlo. Per farlo è necessario “entrare” nel testo dell’epigrafe e fornirne la spiegazione. Oggi capita spesso di sentire coloro che si lamentano per il sempre più frequente uso/abuso, spesso criptico, di abbreviazioni e acronimi. Certo che, anche i romani non scherzavano affatto in questo vezzo. Il testo proposto, con la lacuna colmata in entrambe le righe, è il seguente:

P . HORTORIUS . SCAURUS . G . CAESIUS

SEX . F . II . VIRI . D . D . P . P . C . F . E . Q . P

Per un testo latino che, privo delle abbreviazioni, risulterebbe:

PUBLIUS HORTORIUS SCAURUS GAIUS CAESIUS SEXTI FILIUS DUUM (II) VIRI DECURIONUM DECRETO PECUNIA PUBLICA CURAVERUNT FACIENDUM (o anche FACIENDUM CURAVERUNT) EIDEM QUE PROBAVIT

Che in italiano verrebbe reso con: “Publio Hortorio Scauro (e) Gaio Cesio Figlio di Sesto, Duumviri, per Decreto dei Decurioni, con Denaro Pubblico, si Curarono di Fare e Questa Opera lo Prova”.

La seconda parte della seconda riga, costituita da sole iniziali, riprende una formula convenzionalmente utilizzata nelle epigrafi romane che attestavano e certificavano l’esecuzione di opere edilizie.

Si apprende pertanto che Publio Hortorio Scauro e Gaio Cesio, Figlio di Sesto, erano, a quell’epoca, i Duumviri del Municipium di Ancona ovvero, i magistrati cittadini. Si trattava di figure assimilabili a quella della più alta carica (corrispondente oggi al “sindaco”), solo che erano due e rispondevano a quello che oggi sarebbe definito il “Consiglio Comunale”, i cui consiglieri erano allora denominati “Decurioni”. Va evidenziato come, ben un millennio dopo (e anche oltre, fino al 1198) la magistratura del Libero Comune/Repubblica anconitana, per il suo autogoverno, avrebbe continuato a rifarsi a questo identico assetto istituzionale (con i due consules).

Uno dei modi per garantire efficacia ed equilibrio all’attività di governo dei duumviri consisteva nel fare in modo che uno dei due provenisse da fuori, come in questo caso. Publio Hortorio apparteneva, infatti, alla “gens Scauria”, che non era originaria della città di Ancona, ma probabilmente della costa tirrenica, a metà strada fra Roma e Napoli (ancor oggi è presente la località denominata Scauri). L’altro, Gaio Cesio, era invece espressione della cittadinanza locale.

Così come nella stele funeraria di Durazzo, anche nel caso dell’epigrafe rinvenuta presso le vasche degli impianti termali, collocati a ridosso dell’anfiteatro di Ancona, di Gaio Cesio non è citata la gens d’origine, posto che, ovviamente, non ce n’era bisogno. Egli proveniva da Ancona e, per identificarlo più precisamente, in questo caso, si è fatto ricorso al patronimico: si trattava di Gaio Cesio, il figlio di Sesto. Che si tratti proprio dello stesso della stele di Durazzo? Ciò con è assolutamente certo (forse, la certezza non vi sarà mai), ma sembra tuttavia piuttosto probabile.

Una cosa, in ogni caso, è certa: entrambi i duumviri abitavano ad Ancona, entrambi erano molto noti e, con ogni probabilità, entrambi vissero nel I secolo d. C.. Quanto a Gaio Cesio, si potrebbe così trattare del più antico cittadino anconitano mai identificato come tale.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

 

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