Affidamento allargato e sospensione dell’ordine di esecuzione, la Corte Costituzionale si pronuncia

LA ROTTURA DEL PRINCIPIO DEL PARALLELISMO È COSTITUZIONALMENTE ILLEGITTIMO

di Avv. Gabriella Semeraro

imagesNel nostro ordinamento, Il pubblico ministero, quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, emette il cosiddetto “ordine di esecuzione”, tramite il quale comanda alla polizia giudiziaria di condurre immediatamente in carcere il condannato, sempre che lo stesso non sia già detenuto. In tale ultimo caso, l’ordine viene comunicato al ministero della giustizia e notificato al condannato nell’istituto penitenziario.

Tuttavia, il codice di procedura penale, all’art. 656, prevede che l’ordine venga sospeso quando, a seguito di una serie di calcoli matematici effettuati dal p.m. (che deve sottrarre dalla pena comminata il tempo corrispondente alla limitazione della libertà presofferta, quella indebitamente sofferta e gli eventuali sconti per la liberazione anticipata), la pena da scontare risulta “breve”. In questo caso, eccezion fatta per i divieti di cui al comma 9 dell’art 656 c.p.p., il soggetto interessato è ammesso a chiedere una misura alternativa entro 30 giorni.

Generalmente, la pena è considerata breve quando non raggiunge i tre anni.

Il limite generale è stato ampliato nel 2013 dal legislatore ad anni 4 al fine di chiedere l’affidamento in prova al servizio sociale (affidamento allargato), con l’inserimento del comma 3-bis all’art. 47 della legge n. 354 del 1975.

All’intervento legislativo non è però seguita una modifica anche all’interno del codice di procedura penale ai fini di un coordinamento con la sospensione dell’ordine di esecuzione. E proprio a seguito di tale difformità è stata interpellata la Corte Costituzionale, recentemente espressasi con la sentenza 41 del 2018, con lo scopo di determinare se si sia in presenza di una ragionevole giustificazione.

La sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656 c.p.p., infatti, è strutturalmente e funzionalmente collegata alla possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale. Tali istituti sono stati, infatti, previsti con finalità deflattive dei livelli di carcerazione nonché di prevenzione speciale, basandosi su una presunzione di ridotta pericolosità sociale del condannato.

Nel caso in esame, il rimettente ritiene sussistere una lesione innanzitutto dell’art. 3 della Cost., giacché, in assenza dell’adeguamento dell’art. 656 c.p.p., è discriminato colui che deve scontare una pena detentiva di anni 4, il quale non può godere della sospensione automatica dell’ordine di esecuzione, da chi deve soffrire una condanna di anni 3, che invece ha accesso a tale meccanismo. Inoltre, a parere di quest’ultimo, l’ingresso in carcere del soggetto ammesso all’affidamento allargato comporta la violazione anche dell’art. 27, comma 3, della Cost., poiché contrastante con la finalità rieducativa della pena.

Ad ogni modo – conclude il ricorrente – la lettera della disposizione oggetto di censura non permette alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, stante l’inequivoco riferimento al limite dei tre anni.

L’Avvocatura dello Stato, d’altro lato, lamenta l’inammissibilità delle questioni, essendo questo divario il risultato di una scelta ponderata del legislatore e dovuta al maggior grado di pericolosità del condannato desumibile dalla pena in concreto comminata. Di tal modo, si andrebbe a sindacare la discrezionalità legislativa esercitata a riguardo.

Secondo l’Avvocatura, inoltre, l’affidamento allargato non è equiparabile per ratio all’affidamento ex art. 47, c. 1, legge 354/1975, posto che il primo è previsto solo per chi è già detenuto, con finalità meramente deflattive del sovraffollamento carcerario, mentre il secondo è volto ad impedire l’ingresso del soggetto interessato in carcere.

Valutate entrambe le posizioni, la Corte delle leggi ritiene la questione fondata.

E’ evidente il parallelismo tra le misure sopra menzionate, che trova “conferma nella trama legislativa” (nella sentenza viene citato, ad esempio, l’art. 4-undevicies D.L. 272/05, convertito in l. 49/06, il quale ha innalzato il limite della sospensione ad anni 6 per i tossicodipendenti sottoposti a programma di recupero pari all’aumento della soglia di accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova).

Pur essendo vero che delineare i casi di censura, dove le ragioni ostative appaiano prevalenti, compete alla discrezionalità legislativa, come avviene già al c. 9, l. a), dell’art. 656 c.p.p., nel caso di specie la rottura del parallelismo appare connotata da gravità, imputabile al mancato adeguamento della disposizione oggetto di censura, “perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione”.

Infatti, l’art. 47 c. 3 bis della l. 354/1975 non si rivolge solo ai detenuti ma anche a condannati in stato di libertà, stante l’inciso “anche residua” operato con riferimento alla pena limite, effettuando una tendenziale equiparazione in questo caso tra detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura.

Pertanto, “il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato”. Detto ciò, per la Corte, la questione riguardante la lesione dell’art. 27 Cost. resta assorbita nella prima.

L’art. 656, c. 5, c.p.p. è quindi incostituzionale nella parte in cui non dispone la sospensione dell’esecuzione per condanne da scontare, anche residuali, di anni 4.

 

 

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