Taranto. Lavorare per vivere o morire per lavorare?

PRIMO MAGGIO 2015: TRA MILANO VIOLENTA E ROMA POLEMICA, SPICCA UNA TARANTO IN LOTTA.

chgiicfjDi Barbara Fuggiano

È già il terzo anno che Taranto festeggia il giorno dei lavoratori con un concerto “ombra”, alternativo al ben più famoso e popolato di Piazza San Giovanni a Roma. Il Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti, quest’anno, ha organizzato ancora una volta la manifestazione gratuita per dar voce alla città pugliese in cui lavoro e salute sembrano nemici più che amici.

Sì ai diritti, no ai ricatti. Lavoro: ma quale lavoro?” è il titolo scelto per l’evento 2015. Anche la scelta del luogo non è casuale: il parco archeologico delle mura greche, simbolo del degrado di una città dalle grandi potenzialità, calpestate da poco amore, non curanza, negligenza e corruzione. “Non è un contro-concerto rispetto a quello di Roma, perché non siamo contro nessuno. Siamo un’alternativa. Vogliamo puntare sulla musica, ma soprattutto sul dibattito che tenga al centro il tema del lavoro e raccontare il dramma di questa città e di tante altre città italiane” ha detto Michele Riondino, attore tarantino che ha fatto parte dello staff per l’organizzazione dell’evento.

L’idea del concerto “alternativo” – che purtroppo molti intendono come “doppione mangia-pubblico” di quello romano – nasce ovviamente con l’ormai noto caso giudiziario che vede come protagonista l’Ilva, l’impianto siderurgico più grande d’Europa, accusato di non aver bonificato e ammodernato lo stabilimento causando seri danni all’ambiente e all’incolumità dei cittadini.

Nel processo non si scontra solo l’accusa contro gli imputati (in primis, i Riva, proprietari della società), ma si scontrano due diritti fondamentali dell’individuo, costituzionalmente garantiti: lavoro e salute. Già, perché l’Ilva, anche se per decenni ha messo in pericolo e danneggiato l’ambiente e la vita degli abitanti, ha anche risollevato le sorti di molte famiglie, garantendo un posto e uno stipendio fissi. Le dimensioni dello stabilimento – 15 milioni di metri quadri, quasi tre volte la grandezza della stessa Taranto – sono proporzionali alle dimensioni del problema: 12.000 dipendenti, quasi il 90% dei residenti nella provincia tarantina; e prima dello scandalo giudiziario (su fatti, peraltro, da anni noti ai pugliesi) il lavoro nello stabilimento Ilva era da tutti ritenuto “una garanzia”, invidiata e invidiabile.

Chiudere l’impianto siderurgico significa mettere in mezzo alla strada tutti questi dipendenti e tutte le loro famiglie. Pochissime, in realtà, le alternative che potrebbero porsi di fronte a queste persone, perché la provincia non ha mai investito – quanto meno, non allo stesso modo – su altre aziende o in altri settori.

Da una parte il lavoro, dall’altra l’ambiente, i lavoratori e gli abitanti della zona (del rione Tamburi di Taranto e dei comuni di Massafra e Statte, tra i più vicini) devastati dall’inquinamento incontrollato del gigante nero.

Per quanto lo si voglia negare, appellandosi alla sacrosanta presunzione di innocenza dell’imputato, che l’Ilva abbia inquinato, che nella provincia il tasso di mortalità per tumore ai polmoni sia superiore “alla norma”, che il colore dell’aria è “diverso”, che i panni stesi sul balcone diventano “neri” dopo poche ore, che le terre incolte attorno all’area siderurgica siano “non pascolabili” e che i muri si tingano di rosso sono dati di fatto. Senza considerare gli studi e gli accertamenti scientifici che sono stati svolti.

Le autorità giudiziarie e i decreti salva-ilva hanno cercato di trovare un compromesso, tra salute e lavoro: lo stabilimento rimane in piedi, il lavoro non si tocca, ma l’ambiente va bonificato e l’impianto ammodernato. Ancora una volta, si fanno i conti senza l’oste: con quali risorse finanziarie? Ed ecco che arriva la Newco pubblica, che tra alcuni mesi acquisirà gli impianti e il personale dell’azienda dall’attuale Amministratore Straordinario. Fu una scelta preannunciata da Renzi verso la fine del 2014: lo Stato deve farsi carico di risanare l’azienda e la provincia devastate da privati, per poi rilanciarla industrialmente sul mercato, per tutelare l’occupazione e, al contempo, la salute.

Questa scelta ha aperto la strada a critiche asprissime, perché quando l’Ilva era statale – fino al 1995 – è stata terreno fertile per la corruzione, in danno degli operatori economici del settore e dei lavoratori. L’urgente privatizzazzione – con la vendita a Emilio Riva – era stata vista la salvezza dell’impianto e dei suoi disastri economici. I disastri economici hanno cambiato nome, sono diventati disastri “ambientali”; per anni il ricatto (o così o niente) di fronte al quale i sindacalisti e i politici sono rimasti inebetiti. E adesso? Adesso un passo indietro, la statalizzazione, dovrebbe risolvere la situazione?

Questi i dubbi, le speranze, le lotte che animano il primo maggio tarantino, appoggiato da personaggi noti e, per una volta, anche “pensanti”.

Eppure, in tutto questo, qualche settimana fa, la vedova di Riva – Giovanna Du Lac Capet – ha avuto il coraggio di affermare di fronte alle telecamere della pugliese Telenorba: “La Puglia ha tolto la vita a mio marito.. Veramente lo hanno ammazzato e la storia, in Italia, non gi ha reso alcuna giustizia. A me la Puglia non ha tolto niente: a mio marito, invece, ha tolto la vita”. Non ci sto. La vita di Emilio Riva è stata stroncata – per scherzo del destino, chi può dirlo? – da un tumore, lo stesso male che ha ucciso molti dei suoi dipendenti, perché di fronte al male “siamo tutti uguali”.. La Puglia non gli ha tolto niente, anzi, gli ha dato (forse) troppo.

Buon (trascorso) primo maggio.

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