FOCUS: Storie di Sport e Diritti nell’Anno Olimpico- Sport e potere: le Olimpiadi di Berlino 1936 e il grande Jesse Owens.

Jesse Owens e “Luz” Long

Per ricordare il grande Jesse Owens che il 31 marzo 1980 percorreva l’ultima sua corsa ripubblichiamo  l’omaggio di Fatto & Diritto nella prima puntata degli speciali dedicati alla storia dello sport.

Inizia oggi un lungo e meraviglioso viaggio di Fatto&Diritto nella storia dello sport.
Nell’anno che culminerà quest’estate nella speriamo indimenticabile Olimpiade di Londra, racconteremo storie di uomini e donne, eventi e tragedie che hanno lasciato una traccia indelebile nel cammino dell’uomo.
Storie in cui sport e diritti si mischiano, si fondono e a volte si confondono, ma lasciano in ogni caso un grandissimo senso di vertigine ha chi le ha potuto vivere con i propri occhi.
Ecco, noi cercheremo di regalarvi qualche briciolo di questa meravigliosa vertigine che è la Storia.

1^ Puntata – Sport e potere: le Olimpiadi di Berlino 1936 e il grande Jesse Owens. Hitler era al potere dal 1933. Il regime nazionalsocialista, nella sua fase di ascesa e radicamento, doveva trasmettere alla cittadinanza tedesca, ma soprattutto al mondo interno, un’immagine di forza fisica teutonica, amor patrio, coraggio, organizzazione.
Doveva, soprattutto, marchiare a fuoco nelle pagine della storia la sensazione che la Germania, distrutta e umiliata dalla Grande Guerra, aveva ormai recuperato appieno la sua forza e grandezza.
Le Olimpiadi di Berlino del 1936 furono una gigantesca e straordinaria rappresentazione propagandistica della grandiosità germanica, un immenso spot di regime davanti al mondo intero nell’epoca in cui ancora non c’era la televisione ma il cinematografo.

“Olympia”, il celebre film di Leni Riefenstahl, è l’immagine indelebile impressa nella storia della “macchina del consenso” tedesca proiettata sull’Olimpiade berlinese.

Grandiosità architettonica delle strutture olimpiche, chiaro richiamo al classicismo dell’antica Grecia, dove maestosità, linearità ed equilibrio portavano in sé un’idea di forza e sicurezza. L’organizzazione dell’evento sportivo confondibile con una parata militare: memorabile la cerimonia di apertura. L’atleta tedesco scelto per rappresentare l’ideale ariano dell’uomo alto, aitante, biondo, chiaro di carnagione e con occhi azzurri, richiamo all’ideale greco del “kalòs kaì agathòs”.
Tutto questo gigantismo teatrale e la straordinaria grandiosità sportiva era fumo negli occhi del mondo per coprire ciò che stava accadendo negli stessi anni. Parteciparono 49 Paesi all’Olimpiade, Paesi i cui governi ancora non si rendevano certamente conto della reale entità della politica che Hitler stava portando avanti, in particolare la feroce repressione del dissenso e il radicale antisemitismo. Basti pensare che le leggi di Norimberga furono emanate nel 1935 con il conseguente isolamento degli ebrei tedeschi, non più considerati cittadini, ma sudditi non ariani. Difficile comprendere tanta miopia, se pensiamo che anche a livello sportivo gravissime conseguenze alla politica hitleriana iniziavano a farsi strada in maniera dirompente. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi dalla squadra olimpica e dovettero gareggiare per altri paesi.

E poi gli sportivi afroamericani, discriminati tanto nell’Olimpiade berlinese quanto, in certi casi, in patria: basti pensare che la squadra olimpica americana presentava soltanto 18 afroamericani su 312 atleti. Ma i Giochi Olimpici del 1936 sono anche la storia di tanti uomini e donne che hanno lasciato un ricordo di dignità e solidarietà, prima che delle loro imprese sportive. Uomini e donne che hanno saputo dire di no al regime nazista e all’ideologia che travolgeva ogni capacità di critica e ogni differenza umana e culturale. Ricordiamo Albert Richter, ciclista tedesco fortissimo che rimase soldiale al suo storico allenatore Ernst Berliner, ebreo discriminato, e disse no alla nazionale tedesca; Max Schmeling, pugile tedesco, emblema di forza muscolare e violenza, che usò il suo coraggio a rischio della sua stessa vita per salvare decine di ebrei dalla deportazione.

Pensiamo anche a Carl Ludwig Long, soprannominato “Luz Long”: la sua storia sportiva si intreccia con quella del nostro protagonista della puntata, Jessi Owens.

Già, Jesse Owens. In questo scenario si staglia, grandiosa e indimenticabile, la sua figura e la sua storia. Una di quelle storie in cui sport e vita, diritti e umanità violata diventano colori di uno stesso dipinto.
Originario dell’Alabama, il piccolo Owens a nove anni si trasferì con la famiglia a Cleveland, in Ohio.Lì conobbe a fondo la povertà della provincia americana, quella che nessuno ha davantia gli occhi quando pensa al “sogno americano”. Ma la storia degli afroamericani, a quell’epoca, nel pieno della Grande Depressione, era molto spesso simile a quella della famiglia del piccolo Owens.
James Cleveland, JC, ma un insegnante di scuola, non comprendendo il suo slang, lo iniziò a chiamare Jesse. E da lì, per tutti, James Cleveland Owens divenne solo il grande Jesse Owens.Nel 1933, ai campionati nazionali studenteschi, sorprese tutto il mondo sportivo americano con grandi prestazioni nel salto in lungo e nella velocità, tanto da fargli meritare l’ammissione all’università Statale dell’Ohio. Jesse iniziò a vivere l’atletica non solo come uno sport da ragazzo, ma come vita.

Il 25 maggio ’35, nel Mitchigan, stabilì nell’arco di poco più di una mezz’ora il record mondiale di salto in lungo,con la strepitosa misura di 8 metri e 13 (record rimasto intoccato fino al 1960), e nelle 3 discipline della velocità. 220 yards piane, 220 yards ostacoli e 100 yards piane.

Alle Olimpiadi di Berlino del ’36 Owens fu assoluto protagonista: oro nei 100 metri, oro nel salto in lungo, oro nei 200 metri e oro nella staffetta 4×100. Solo il connazionale Carl Lewis, il “Figlio del vento”, riuscì ad eguagliare il numero di ori in una stessa Olimpiade, a Los Angeles 1984.
La storia di Jesse Owens, pluricampione alle Olimpiadi di Berlino,è emblematica. Ancora oggi si ricorda che Hitler, indignato per aver visto infranto il sogno dell’invincibilità tedesca, si rifiutò di stringere la mano al campione africano (anche se in realtà la vicenda è poi stata ricostruita in maniera un po’ diversa anche dallo stesso Owens), mentre nessuno ricorda che il Presidente americano Roosevelt non volle ricevere e onorare pubblicamente l’atleta, una volta rientrato in patria con le 4 medaglie d’oro.

Quel che mai si dimenticherà di quell’Olimpiade del 1936 e che consegnerà Jesse alla pagina degli indimenticabili della storia sportiva fu il podio del salto in lungo, il 4 agosto.
In quel pomeriggio, infatti, allo stadio olimpico era presente anche il Fuhrer, pronto ad assistere al successo dell’idolo di casa “Luz Long”. Hitler era seduto alla tribuna d’onore dell’Olympiastadion di Berlino, e i documentari d’epoca lo ritraggono partecipe e nervoso mentre assisteva alle gare di atletica, nel caldo afoso dell’estate. Lo stadio olimpico era una sua creazione, testimonianza diretta di quella grandezza nazista che doveva riverberarsi in ogni aspetto del quotidiano. Capace di 110mila spettatori e progettato nel 1934, appena un anno dopo l’incendio del Reichstag e la presa del potere da parte del partito nazista, era stato ultimato a tempo di record, e la sua inaugurazione era avvenuta proprio in occasione della cerimonia d’apertura dei giochi olimpici.

Quando sul gradino più alto del podio salì invece Jesse Owens, nero afroamericano, si narra che Hitler si alzò dalla sua poltrona d’onore e uscì dallo Stadio per non partecipare al cerimoniale di premiazione in cui avrebbe dovuto stringere la mano e onorare l’atleta nero.Qui storia e fantasia si confondono. Nella sua biografia , “The Jesse Owens Story”, Owens stesso raccontò come Hitler si alzò in piedi e gli fece un cenno con la mano: Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto”.

Quel giorno si unirono storia, coraggio, diritti e una solida, grande amicizia tra l’atleta di casa, Luz Long, e l’afroamericano Jesse Owens.

Alla squadra tedesca, misera di soddisfazione, era rimasta solo la gara di salto in lungo per poter vantare qualche ambizione di gloria, soprattutto grazie alla presenza del ventitreenne studente di legge Carl Ludwig Long, detto Luz, il prototipo perfetto dell’atleta ariano: alto, biondo e muscoloso, con la pelle bianchissima come un eroe greco. Nelle qualificazioni della mattina del 4 agosto 1936 Luz Long aveva effettuato il miglior salto, mentre Jesse rischiava di non qualificarsi per la finale dopo aver sbagliato i primi due salti. Nel momento di maggiore difficoltà, prima dell’ultimo e decisivo salto verso il cielo e la finale olimpica, Luz Long scolpì il suo nome nella storia dello sport. Lo avvicinò, cercò di tranquillizarlo, ricordandogli quanto sterminate fossero state le sue potenzialità, e sussurrandogli nel suo inglese dal forte accento tedesco:”Uno come te dovrebbe essere in grado di qualificarsi ad occhi chiusi” e gli consigliò di staccare almeno una ventina di centimetri prima della linea di battuta, per non rischiare un altro nullo. Qui la storia diventa leggenda: Luz Long appoggiò un fazzoletto bianco a fianco della pedana, per indicare al rivale il punto giusto di stacco. Jesse saltò verso la finale del pomeriggio e verso la gloria della vittoria olimpica. 8 metri e 06, superando sul podio proprio Luz Long, che saltò 7 metri e 87 centimetri.
Il pubblico dell’Olympiastadion osannava con fragorosi applausi il campione Jesse Owens e l’idolo di casa Luz Long, mentre i due si abbracciavano con sincerità in quella che rimase una delle più belle immagini di amicizia, lealtà e fratellanza.

TOMMASO ROSSI

 

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