“Modi anconetani”, una ricerca etnografica

ESILARANTE SAGGIO DI “STINGA” CALABRESE
 di Stefano Calabrese

(Guasco edizioni, euro 10)

ANCONA – di Giampaolo Milzi – Fra le espressioni sintetiche di chi si è non senza difficoltà cimentato nel fotografare l’essenza del carattere tipico dell’anconetano, ha avuto grande successo quella in conclusione della poesia “Cume se magna le crucete in porcheta” di Eugenio Gioacchini, al secolo Ceriago: “rozo

de fora, duro, un po’ vilà ma drento bono, un zuchero, ‘namore,… che nun conta la scorza, conta el core”. Beh, dopo esserci letti e riletti il libello “Modi anconetani” di Stefano Calabrese, pensiamo che la lirica vernacolare di Ceriago trova in parte una conferma. Perché quella di Calabrese, detto Stinga, 47 anni, anche lui osservatore finissimo della fenomenologia dei suoi conterranei dorici ed elegante penna sarcastica, è una ricerca etnografica capace di cogliere ed attualizzare mirabilmente le radici “de l’ancunetà”.

Una conferma, in parte, rispetto alla visione “ceriagana”.

“Rozo de fora, duro, un po’ vilà”, verissimo. Ma anche, spesso, burbero, sfuggente, imperscrutabile, lunatico e indolente), strafottente, menefreghista, chiuso, testardo, “straino” (aggiungiamo noi)… e chi più ne ha più ne metta. Insomma, “la scorza” c’è eccome, come quella del “mosciolo” (cozza o mitilo, in italiano). Ma quanto al “drento bono, un zuchero, ‘namore”, forse è il caso di essere meno compiacenti di Gioacchini. Un esempio per credere? Non ce ne vogliano i commercianti, ma in diversi negozi e pubblici esercizi del capoluogo marchigiano i titolari o il commesso/commessa di turno “pare che pe’ vendete ‘na cosa te stanne a fa’ un favore”.

Eppure, nei secoli, la ultrabimillenaria Ankon fondata dai Greci Dori siracusani è stata considerata Porta d’Oriente, aperta quindi anche ad amare il prossimo suo, più o meno straniero, come se stessa.

Tra le circa 100 espressioni anconetane, il più di volte sbrigative come chi le pronuncia – frutto di un lavoro nel quale Stinga si è impegnato per due anni, raccogliendo quel molto con cui ci aveva già deliziato coi suoi post su Facebook – ci sono anche capitoletti permeati di virtuosismo civico relazionale. Come le “Rassicurazioni”, la “Capacità di sintesi”, le “Lungimiranze”, la “Fantasia”. Anche questi “modi”, va sottolineato, contaminati da sarcasmo, ubiqui sottintesi, sospette venature di sfottò.

Da questo libello sul “dire all’anconetana” emerge in ogni caso una buona dose di diplomazia, di senso di concretezza, di voglia di stare coi piedi ben piantati per terra, di ritmi esistenziali lenti. Perché “Ancona e gli anconetani non sono inclini al cambiamento”, come sostiene lucidamente lo scrittore Francesco Fumelli nella lunga prefazione, a conferma della diffusa e poliedrica locuzione locale “sta tanto be’”. Aggiungendo che con questo suo libro d’esordio l’amico Stinga lo “ha aiutato a capire che sono nato in una terra che ha un germe di buddismo fatto popolo, di fatalismo”.

La “Fantasia anconetana”, si diceva. Ma, come confessa impietoso l’autore, fantasia e originalità (non, ndr.) sono sempre state caratteristiche dell’anconetano doc: come dimostra l’abuso degli aggettivi “Dorica”, “Adriatica/o” e “del Conero” a tentar di caratterizzare attività commerciali e/o aziendali. E anche le “Italianizzazioni ed europeizzazioni”, cioè i termini appartenenti al linguaggio anconetano di derivazione nazionale e del vecchio continente, sono solo 13 nel bilancio della ricerca, sebbene intriganti e gustosi, come “Sfrondone”, “gambone”, “sbregare”, “finlandese (tuta da ginnastica), “polacca” (brioche a forma di conchiglia), “Svizzera” (schiacciata rotonda di carne macinata).

Attingendo al linguaggio forbito ma storpiato da vocabolario, godendo degli errori linguistici, indugiando in iperbolici insulti, ma anche inventando di sana pianta allocuzioni e formule retoriche, il parlare anconetano, pur non assurgendo al livello di dialetto, è comunque un idioma, un insieme di idiomi (su tutti “je tira il culo”, doppio senso che sta sia per chi è molto nervoso, sia per chi è dotato di particolari abilità, e “non vole sapè un cazzo”, persona irremovibile nel suo intento) capaci comunque di lasciare il segno, e di aprire molti interrogativi, a volte misteriosi, soprattutto nell’ascoltatore che anconetano non è. Bravissimo Stefano “nell’individuare in modo maniacale tutte le sfumature di una persona (anconetana, ndr.), come parla, come si muove, i suoi tic, atteggiamenti (…) tanti modi di dire che spesso emergevamo nelle decine e decine di nostre conversazioni telefoniche (…) dalle quali sono nati anche tutti i personaggi che hanno dato vita alla nostra amata commedia Piacere Ivo”, scrive nella postfazione l’attore e sceneggiatore Ettore Budano, che ha più volte collaborato con Calabrese, il quale è noto soprattutto per le sue divertenti e stilose produzioni teatrali e di cortometraggi.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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