IL maxi processo Ilva:Ambiente Svenduto alla quarta udienza

INTANTO L’ASSOCIAZIONE PEACELINK REGISTRA UN PICCO DI EMISSIONI NOCIVE
Di dott.ssa Barbara Fuggiano (praticante avvocato)

Venerdì mattina si è svolta la quarta udienza preliminare del maxiprocesso “Ambiente svenduto” (Environment Sold Out) che vede accusati di disastro ambientale 52 imputati – tra i quali tre società, Ilva s.p.a., Riva Fire e Riva Forni Elettrici – dopo la morte (ironia della sorte, per tumore) di Emilio Riva lo scorso fine aprile (ricordo che in occasione del primo maggio a Taranto, diversi operai sottolineavano la vigliaccheria di non essere stato in grado di spirare il giorno della loro festa) e le 27 recenti condanne di ex-dirigenti (ampiamente trattate in un precedente articolo: https://www.fattodiritto.it/ilva-condanna-per-omicidio-e-disastro-ambientale/).
Dopo l’udienza dello scorso ottobre, nella palestra del comando provinciale dei vigili del fuoco (dato che nessuna aula del Tribunale avrebbe potuto ospitare l’altissimo numero di persone presenti, tra imputati, avvocati, lavoratori e residenti del quartiere Tamburi che si sono costituiti parte civile), per oltre dieci ore e con sole due pause, il GUP Wilma Grilli ha raccolto altre costituzioni di parte civile e altre eccezioni di inammissibilità delle stesse da parte degli avvocati della difesa, la cui decisione è stata rinviata al 16 dicembre.
Tra le parti civile costituitesi: la Provincia di Taranto (che ha avanzato un risarcimento di 10 miliardi di euro), la provinia di Lecce (che chiede 1 milione di euro), il Comune di Statte (600 milioni), associazioni ambientaliste come Altamarea e Peacelink, Legambiente e Confagricoltura, il Wwf (2 milioni di euro), allevatori, i comitati cittadini, i sindacati ed oltre un centinaio tra lavoratori cimiteriali e residenti del quartiere Tamburi, la famiglia di Francesco Zaccaria, operaio dell’Ilva deceduto nel novembre del 2012 (5 milioni di euro).
All’apertura circa l’ammissibilità di tutte queste parti civili, ha fatto da contraltare la netta chiusura degli avvocati della difesa, tra i quali si è distinto quello di Nichi Vendola (accusato di concussione), che ha asserito di non voler fare discussioni e ha solo depositato delle conclusioni scritte, da cui emerge – grazie ad una veloce lettura del GUP in aula – la richiesta di esclusione di tutte le associazioni ambientaliste, nonostante il partito per cui il presidente della Puglia milita sia Sinistra Ecologia e Libertà.
Intanto, la situazione economica dello stabilimento rimane seria; la prima tranche del prestito bancario non lascia spazio ad una seconda tranche se non in presenza di una valida proposta d’acquisto.

TARANTO E L’ILVA. L’impatto visivo (le ciminiere, i nastri trasportatori, i parchi minerali) la dice lunga sulle dimensioni dello stabilimento dell’Ilva, che, abbracciando diversi comuni (Massafra e Statte, tra i più vicini), si estende per più di 15 milioni di metri quadri (quasi tre volte Taranto), ma le stime occupazionali sono ancor più paralizzanti: più di 12 mila dipendenti diretti, tra i quali quasi il 90% residenti nella provincia tarantina.
Nelle foto catturate da Google Earth, tanto per fare un esempio, chiunque riconoscerebbe quell’enorme macchia nera sopra Taranto.
Per chi, come me, è nato e vissuto in quelle zone, è impossibile non avere in famiglia almeno una persona impiegata all’Ilva, così come è impossibile non avere più di un morto per tumore, almeno uno ai polmoni, in famiglia. Il colore particolare dell’aria sopra l’Ilva al tramonto, l’odore e la sensazione di soffocamento sulla statale 100 tra Massafra e Taranto, i muri rosa, i guard rail rossi (da piccola, ho sempre creduto che si trattasse di comune ruggine): sono cose che non si dimenticano.
L’Ilva, per i tarantini, è Taranto. La sicurezza del posto fisso, la garanzia di trovare un’occupazione ai propri figli, il salario per la famiglia. “Ah, tuo padre lavora all’Ilva?”, sospiro di sollievo, sorriso d’invidia. Ami Taranto, ami l’Ilva; odi l’Ilva, odi Taranto. E’ sempre stato così. Per molti, ma non per tutti.
Le denunce della popolazione ci sono sempre state, non è mai stato un fenomeno sconosciuto; è sempre stato, piuttosto, un fenomeno insabbiato. Lo stabilimento era (e, a maggior ragione, è ancora) chiuso al pubblico; proprio pochi mesi prima della conclusione delle note indagini nel 2012, era stata avviata una campagna volta a mostrare l’acciaieria (e i “progressi” nei lavori di bonifica) ai non dipendenti, nel corso di visite guidate.
Ricordo con amarezza un episodio all’università, accaduto ben prima del caso giudiziario. Sabine, una ragazza erasmus francese, mi chiese quale fosse la situazione dell’industria siderurgica di Taranto e se in Italia non fossimo spaventati dall’inquinamento che genera; mi disse anche che non era mai venuta in Puglia, nonostante volesse, proprio per non respirare “aria cattiva”. Dopo averle risposto che quella “aria cattiva” l’avrebbe, prima o poi, respirata anche da Bologna o dalla Francia, mi fermai a pensare che ci era voluta una straniera a chiedermi dell’Ilva, quasi sconosciuta all’opinione pubblica italiana (all’epoca).
D’altronde ancora oggi, fuori dalla Puglia, ai tarantini si chiedono solo informazioni sulle famiglie Scazzi e Misseri piuttosto che sul “mostro nero”.
Ma, tra i più informati l’Ilva non ha fatto parlare solo per l’inquinamento ambientale. Emilio Riva è stato l’artefice del più grande caso di mobbing italiano, quello della palazzina laf. Acquistando l’acciaieria nel 1995, il “ragioniere” decise di ridurre l’organico e impiegare il personale specializzato (compresi tecnici e capi squadra) come operai, seppur a salario invariato; i dissidenti (e gli esponenti sindacali “scomodi”), che non accettavano questo sistema di dequalificazione, venivano confinati in un vero e proprio lager. La palazzina laf, infatti, era un capannone vuoto dove per settimane e per mesi, questi impiegati disobbedienti venivano relegati a non fare nulla, in stanze vuote, praticamente lasciati soli, ad impazzire. Questo scempio ha visto la condanna della società in tutti e tre i gradi di giudizio, poiché la società aveva voluto “mettere in discussione alcuni capisaldi del nostro ordinamento in materia di diritto del lavoro, riscrivere i rapporti fra datori e prestatori di lavoro, rispetto alla loro evoluzione nel tempo”.

IL PROCEDIMENTO PENALE “AMBIENTE SVENDUTO”. La società dei Riva, oltre a garantire occupazione, assicurava alla Regione e alla Provincia utili da capogiro. Per l’inchiesta avviata dalla Procura di Taranto – che più di una volta aveva, nel corso delle indagini, invitato la società a farsi carico delle proprie responsabilità e a regolarizzare la propria situazione – sono stati principalmente i mancati lavori di ammodernamento degli impianti ad arricchire a dismisura la Riva Fire, il fondo principale della famiglia Riva.
Impianti obsoleti stanno a emissioni nocive come emissioni nocive stanno a malati e morti.
Per il re dell’Ilva (Emilio Riva) e per i suoi principi (Fabio e Nicola), a novembre 2012, la contestazione di disastro ambientale (che aveva accompagnato quelle di avvelenamento di sostanze alimentari e di omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro) si sposa con quella di associazione a delinquere con la “partecipazione” di sindacati compiacenti e politici locali e nazionali complici.
Per un approfondimento sui risultati delle due perizie (chimica ed epidemiologica) acquisiti in incidente probatorio, si rinvia all’articolo di questa rivista già richiamato (https://www.fattodiritto.it/ilva-condanna-per-omicidio-e-disastro-ambientale/), per un’analisi più puntuale delle accuse mosse agli indagati si rinvia ad un altro articolo: https://www.fattodiritto.it/caso-ilva-53-richieste-di-rinvio-a-giudizio/.
Il 26 luglio 2012 il GIP di Taranto dispone il sequestro preventivo senza facoltà d’uso degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento, con ordinanza nella cui motivazione si legge “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Il 7 agosto il Tribunale del Riesame conferma la misura cautelare, ragionevolmente vincolandola però al risanamento e alla messa a norma dell’impianto.
La legge n. 231 del 24 dicembre 2012 (cd. salva Ilva), convertendo il decreto legge n. 207 del 3 dicembre 2012, per garantire “la continutià del funzionamento produttivo dello stabilimento siderurgico Ilva s.p.a. (che) costituisce una priorità strategica di interesse nazionale” fa sì che la presenza di provvedimenti di sequestro adottati dall’autorità giudiziaria non impediscano l’esercizio dell’attività di impresa. Di conseguenza, la Procura della Repubblica di Taranto emanava un provvedimento per reimmettere l’Ilva nel possesso degli stabilimenti, senza tuttavia revocare i sequestro, ed esprimento un parere negativo in merito alla reimmissione nel possesso per il periodo precedente, stante l’irretroattività delle nuove norme approvate.
La procura di Taranto solleva due ricorsi per conflitto di attribuzione con riferimento alle norme legislative che vanificavano il potere dei giudici della cautela, ricorsi ritenuti inammissibili dalla Corte Costituzionale poiché la questione avrebbe dovuto formare oggetto di un giudizio costituzionale in via incidentale, dal momento che la Corte stessa “ha sempre ritenuto il conflitto di attribuzioni uno strumento residuale da attivare in assenza di altro rimedio”.
La questione di legittimità costituzionale, dunque, viene sollevata, in un primo momento, dal GIP di Taranto e, in un secondo momento, anche dal Tribunale ordinario, ma la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 85/2013, li dichiara in parte inammissibili (per difetto di motivazione) e in parte non fondati. La Consulta, in particolare, ha ritenuto ragionevole il bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute della collettività (minato dalle emissioni nocive dell’Ilva, in caso di prosecuzione dell’attività) e il diritto al lavoro e all’iniziativa economica (minato dal provvedimento di sequestro, in caso di stallo dell’attività) così come operato dal legislatore, secondo la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale.
Nonostante il tema del bilanciamento tra diritti di elevatissimo rango costituzionale in conflitto al confine tra competenza legislativa e diritto penale “della prevenzione” (e non solo “della repressione”) dei reati abbia animato oltremodo il mondo giuridico, il processo Ilva prosegue.
Il primo tempo dell’udienza preliminare si è svolto il 19 giugno, fermandosi dopo poche ore, poiché il GUP Wilma Grilli, su istanza di alcuni indagati, ha inviato gli atti alla Corte di Cassazione affinché decidesse sulla rimessione della causa ad un’altra Procura (quella della vicina Potenza) piuttosto che a quella di Taranto, ove gli avvocati della difesa ritenevano non vi fossero le condizioni per un giudizio “sereno ed equilibrato”.
Certamente il sospetto avanzato dagli avvocati, seppur frutto di un’astuta tecnica difensiva, non è privo di motivazioni. Basta considerare che lo stabilimento di Taranto è il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa per comprendere che l’intero territorio e il tessuto socio-economico vanno di pari passo con la vita dell’impianto.
A settembre e poi ad ottobre, per i medesimi motivi, l’udienza è stata rinviata, sino a che la Suprema Corte non ha deciso per il rigetto dell’istanza di rimessione del processo ad altra sede. Il 16 ottobre l’avvio ufficiale “dei lavori”, con numerose richieste di costituzione di parte civile presentate, fra gli altri, da associazioni ambientaliste e sindacati, nonché eccezioni di inammissibilità delle stesse e un rinvio al 21 novembre.

I CAPI D’IMPUTAZIONE. Come nel caso Eternit, anche nel procedimento Ilva, l’accusa ha preso le distanze dalla prassi consolidata volta ad incardinare i procedimenti per esposizione a sostanze industriali tossiche e nocive sui reati di omicidio e lesioni personali plurimi ed aggravati, magari accanto a reati contro l’incolumità pubblica.
I P.M., in questi casi, hanno posto l’attenzione sul carattere unitario dell’offesa alla salute e alla vita di un numero indereminato e indeterminabile di persone, individuando un inedito schema di responsabilità che non può che comportare incertezze interpretative di fondo e risultati imbarazzanti, come accaduto proprio lo scorso 19 novembre con il caso Eternit.
49 le richieste di rinvio a giudizio da parte della Procura tra proprietari dell’Ilva, Nicola e Fabio Riva, l’ex presidente Bruno Ferrante, dirigenti attuali ed ex del siderurgico, consulenti della proprietà Riva (i cosiddetti “fiduciari”), attuali ed ex amministratori della Regione Puglia e del comune. Oltre a 49 persone fisiche, ci sono inoltre tre soggetti giuridici per i quali è stato chiesto il processo e che rispondono in base alla legge sulla responsabilità amministrativa delle imprese.

IMG_2547.PNG

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Back To Top