FOCUS- La riforma del terzo settore

IL CODICE DEL TERZO SETTORE

di Elia Emma (Studente UniMC)

a75fca11-b70e-4dc8-af80-44ff0f427d04_mediumDopo una doverosa introduzione al tema, è giunto il momento di addentrarci nei meandri della riforma per capire cosa è cambiato concretamente per gli Enti del Terzo Settore (ETS).

A tal fine inizieremo con un’analisi accurata del cuore della riforma, il provvedimento cardine sul quale si impernia la complessa disciplina in esame: il Codice del Terzo Settore (CTS).

Il Decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, sebbene ultimo in ordine di entrata in vigore rispetto ai decreti riguardanti il servizio civile universale e la disciplina dell’impresa sociale, rappresenta certamente il centro della nuova normativa degli enti associativi, una solida base a partire dalla quale si ramifica tutta la disciplina particolare.

La ratio del Codice è, senza dubbio, quella del riordino normativo; era fortemente avvertita infatti la necessità di individuare disposizioni generali e comuni applicabili a tutti gli Enti del Terzo Settore, prima disseminate in leggi e decreti di varia natura. Con il Codice in questione si è finalmente tagliato questo importante traguardo.

In questa sede ci concentreremo sui primi 19 articoli del Decreto, di 104 totali, contenuti nei primi tre titoli e riguardanti la disciplina generale degli ETS; tratteremo invece le disposizioni successive (norme sulla costituzione, sull’ordinamento e sull’amministrazione, particolari categorie di ETS, Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, CSV e regime fiscale) nei prossimi articoli.

Leggendo le prima disposizioni del Codice ci imbattiamo, come spesso accade, nei principi generali che hanno ispirato la sua redazione, per mezzo dei quali il legislatore ha voluto riconoscere, promuovere e sostenere “il valore e la funzione sociale degli Enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo”. Tale sostegno potrà concretizzarsi anche “mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli Enti locali”.

Quanti disposto dall’art. 2 dovrebbe implicare (nella teoria) una maggiore propensione da parte degli Enti pubblici ad interagire con il Terzo Settore per valorizzare le attività poste in essere nel territorio.

Un’importante novità è stata introdotta dall’art. 5 del Codice, rubricato “Attività di interesse generale”: con questa previsione normativa infatti il legislatore ha volute “recintare” l’area entro la quale gli ETS possono svolgere la propria attività, evitando così la proliferazione di scopi sociali eccessivamente generici (o addirittura atipici), prevedendo però un elenco (aggiornabile in futuro) di ben 26 tipologie di attività di interesse generale, lasciando quindi agli Enti un margine di scelta più che ampio.

I costituendi ETS, ma anche quelli già costituiti, dovranno perciò indicare nel loro Atto Costitutivo e/o nel loro Statuto in quale attività di interesse generale intendono operare, in quale “ambito” del Terzo Settore vorranno sviluppare la loro attività sociale.

Le principali attività di interesse generale introdotte dal Codice sono: servizi sociali, prestazioni sanitarie e socio-sanitarie, educazione, istruzione, formazione professionale, attività culturali di interesse sociale con finalità educative, servizi finalizzati alla protezione dell’ambiente, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, formazione universitaria e post-universitaria, ricerca scientifica di particolare interesse sociale, attività culturali, radiodiffusione sonora a carattere comunitario, attività turistiche, formazione extra-scolastica, servizi strumentali ad ETS, cooperazione allo sviluppo e attività sportive dilettantistiche.

A poche interpretazioni si presta la nota del Ministero del Lavoro a riguardo, la quale stabilisce chiaramente che l’indicazione delle attività di interesse generale (nello Statuto o nell’Atto Costitutivo) “non potrà esplicarsi nell’inserimento pedissequo di un elenco di tutte le attività previste dall’art.5 o di un numero di esse tale da rendere indefinite – e come tale non riconoscibile – l’oggetto sociale”5. Gli ETS dovranno quindi “sforzarsi” di scegliere con cura una o più attività che meglio rispecchino le finalità associative, in armonia con la natura, le caratteristiche e la “vocazione” dell’ente.

Una piccola “via di fuga” dal recinto delle attività di interesse generale (una vera e propria deroga per utilizzare il lessico giuridico) la offre il seguente articolo 6 del Codice, il quale prevede la possibilità per gli ETS di esercitare attività diverse rispetto a quelle indicate in precedenza, purché “l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale, secondo criteri e limiti definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze”.

Tutto perfetto ad una prima lettura, se non fosse che questi “criteri e limiti” lasciati alla definizione dei due Ministeri tardano ad arrivare, congelando di fatti, per il momento, l’applicazione dell’art. 6.

Gli articoli dal 7 al 10 riguardano invece i principi generali di gestione del patrimonio degli ETS, trai quali spiccano indubbiamente l’assenza di scopo di lucro e il divieto di distribuzione, anche indiretto, di utili e avanzi di gestione: le risorse economiche degli enti, infatti, devono essere utilizzate unicamente per lo svolgimento dell’attività statutaria, ai fini dell’esclusivo perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Ed anche in caso di scioglimento dell’ente il patrimonio dovrà essere devoluto ad un altro ETS secondo quanto stabilito dallo Statuto, previo parere positivo dell’Ufficio del RUNTS; in mancanza di una precisa disposizione statutaria il patrimonio sarà devoluto alla Fondazione Italia Sociale (di cui ci occuperemo nei prossimi articoli).

Mi preme tuttavia una precisazione: l’espressione “assenza di scopo di lucro” implica, per gli ETS, non tanto l’impossibilità di avere un avanzo di gestione al termine dell’esercizio finanziario, un risultato positivo dalla differenza tra entrate ed uscite (un “guadagno”, per intenderci), quanto piuttosto l’obbligatorietà di reinvestire quel “guadagno” nell’attività associativa senza distribuirlo tra i Soci, come invece accade nelle società ad esempio o, più in generale, negli enti a scopo di lucro.

Per intenderci: un ETS il cui bilancio dovesse chiudersi ogni anno precisamente con zero euro desterebbe sicuramente dei sospetti, facendo pensare non tanto ad un’errata amministrazione (sicuramente plausibile in alcuni casi) quanto piuttosto ad una distribuzione indiretta degli utili conseguiti durante l’anno, come nei casi di cui al comma 3 dell’art. 8 del CTS.

Proseguendo nell’analisi del Codice troviamo gli articoli 13, 14 e 15, dedicati alle scritture contabili, al bilancio e ai Libri sociali obbligatori8 per gli Enti del Terzo Settore. Articoli importanti se pensiamo che, prima dell’avvento del CTS, la disciplina delle scritture contabili e del bilancio degli enti non profit era affidata al codice civile9 e alle linee giuda dell’ormai soppressa “Agenzia per il terzo settore” (ex Agenzia per le ONLUS).

Il bilancio degli ETS è molto simile a quello che il codice civile indica per le società, componendosi di stato patrimoniale, rendiconto finanziario e relazione di missione, nella quale vengono illustrate “le poste di bilancio, l’andamento economico e finanziario dell’ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie”10. Per gli enti con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate inferiori a 220.000,00 euro invece il bilancio può essere redatto nella forma più semplice del rendiconto finanziario.

Gli ultimi tre articoli che andremo ad analizzare, contenuti nel titolo III (artt. 17, 18 e 19), riguardano le attività di volontariato negli Enti del Terzo Settore.

Se l’art. 18 prevede l’obbligatorietà di un’assicurazione per i volontari, e l’art. 19 l’impegno da parte delle pubbliche amministrazioni di promuovere la cultura del volontariato, in particolar modo tra i giovani, attraverso apposite iniziative da svolgere nell’àmbito delle strutture e delle attività scolastiche, universitarie ed extrauniversitarie, l’art. 17 è quello che introduce le maggiori novità.

Prima di tutto si dà una definizione precisa di “volontario”: il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà.

In secondo luogo, si precisa che l’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo, nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere rimborsate soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate; inoltre, la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria.

Questa disposizione mette fine alla prassi dei “dipendenti-volontari” presenti in molte associazioni di volontariato e spesso pagati per un numero di ore di molto inferiore rispetto a quelle effettivamente prestate: l’eccedenza rispetto al totale previsto nel contratto di lavoro veniva infatti svolta “a titolo gratuito”, e cioè come volontari.

Infine, merita un ultimo esame il primo comma dell’art. 17, il quale permette agli ETS di avvalersi di volontari nello svolgimento delle proprie attività, dovendo iscrivere in un apposito registro i volontari che svolgono la loro attività in modo non occasionale.

Nulla di strano ad una prima lettura, ma da un’analisi più approfondita emerge subito un’importante novità per il terzo settore: anche le associazioni “non di volontariato” (come le associazioni di promozione sociale, le associazioni culturali o atipiche etc.) possono avvalersi di volontari, intesi come soggetti che non dovranno necessariamente essere soci dell’ente in questione, ma potranno prestate la loro attività liberi da ogni vincolo associativo (come il pagamento della quota social) e privi di ogni diritto connesso (diritto di voto in assemblea), sempre però con un’apposita copertura associativa.

Nascono quindi nuove categorie di soggetti legati agli Enti del Terzo Settore:

  • -  gli associati: coloro che si iscrivono all’associazione, pagano la quota associativa e sono soggetti a diritti e doveri di cui alle disposizioni statutarie;
  • -  i volontari: soggetti che prestano liberamente la propria attività all’interno dell’ente. per sostenerlo ed aiutarlo nel compimento dello scopo sociale, ma liberi da diritti e/o doveri nei confronti dell’ente, salve le sue disposizioni interne che eventualmente regolano l’attività di volontariato;
  • -  i volontari associati: soggetti che nello stesso tempo sono sia soci dell’ente che volontari; in questa particolare categoria rientrano di diritto, ad esempio, i membri del consiglio di amministrazione.

    Nei prossimi articoli analizzeremo la disciplina della costituzione e dell’amministrazione degli ETS, prendendo in esame il titolo IV del Codice, dall’art. 20 all’art. 31.

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