​Caso Cappato: esercizio o abuso di un diritto? 

L’ANALISI DEL PROCESSO, NEI GIORNI IN CUI VIENE APPROVATA LA LEGGE SUL BIOTESTAMENTO

DI avv. Gabriella Semeraro

Il giorno 13 dicembre 2017 è stata celebrata dinanzi alla Corte d’Assise del Tribunale di Milano l’ultima udienza del procedimento penale incardinato nei confronti di Marco Cappato, imputato del reato di cui all’art. 580 c.p. perché, come chiaramente emerge dal capo di imputazione, con la propria condotta, rafforzava il proposito suicidario del Sig. Antoniani Fabiano, conosciuto anche come Dj Fabo, lo informava della possibilità di ricorrere al suicidio assistito presso l’associazione “Dignitas”, con sede in Svizzera, e lo accompagnava personalmente in loco trasportandolo in auto.1 
A tale udienza è stata esaurita l’attività istruttoria, ossia sono state acquisite tutte le prove richieste dalle parti, e la Corte ha rinviato alla data del 17 gennaio 2018 per discussione, posticipando ad ulteriore data la camera di consiglio, necessaria per poter arrivare ad una decisione. Di tal modo, la Corte si è presa maggior tempo per affrontare il compendio probatorio a propria disposizione nonché per analizzare le problematiche affrontate nel corso del procedimento, altamente dibattute sin dalle prime fasi.
I giudici insigniti del compito di giudicare il Cappato sono, infatti, ben consapevoli dell’importante ruolo che rivestono e del possibile impatto che la propria pronuncia può assumere sul panorama giuridico contemporaneo del nostro paese. In particolare, ciò incide sull’evoluzione dei diritti individuali, alla luce delle mutevoli esigenze delle società moderne, evoluzione che, come spesso è accaduto, si è realizzata proprio a partire  dalle aule di tribunale, fungendo le relative pronunce da precursori di importanti precetti legislativi, recepiti, in un secondo momento, dal nostro legislatore.
Ebbene, la questione sottesa al caso in esame è tutt’altro che scontata ed il dibattito è aperto e vivace. Il terreno di scontro è rappresentato da un richiesto diritto a vivere dignitosamente, o meglio, nella sua accezione negativa, a morire dignitosamente, essendo l’uno strettamente ricollegato all’altro, e, ancora una volta, a darsi battaglia sono questione morale e questione giuridica, entrambe sviscerate da diversi punti di vista. 
A fronte di un fatto ben noto, quanto meno nel suo nucleo principale (la tragica situazione di Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco, in modo irreversibile, affetto da insostenibili sofferenze a causa di un incidente stradale; la lucida, consapevole e maturata volontà di porre fine alla propria esistenza; i contatti con il Cappato e l’assistenza offerta da quest’ultimo nel documentare in modo puntuale l’Antoniani sulle possibili strade da intraprendere, oltre al trasporto apprestato dal medesimo per giungere in Svizzera), il grande interrogativo che si pone è se la tutela penale accordata dal nostro codice al bene “vita” dall’art. 580 c.p. sia un retaggio del passato, ormai superato e persino in contrasto con la Costituzione, o se sia una garanzia indefettibile posta a tutela di soggetti particolarmente vulnerabili. 
Per fare ciò, è essenziale pertanto ripercorrere le argomentazioni sostenute dai protagonisti di questa vicenda giudiziaria.
Innanzitutto, risulta doverosa una premessa per chiarire la portata dell’art. 580 c.p.: il reato rubricato come “Istigazione o aiuto al suicidio” è fattispecie a forma libera, ossia realizzabile nelle più disparate modalità, purché la condotta dell’autore del reato si ponga in un rapporto di funzionalità con il gesto suicidario, e punisce allo stesso modo chi istiga o determina altri al suicidio nonché chi rafforza e presta aiuto materiale o morale a un soggetto che già ha maturato la volontà di porre fine alla propria vita. Trattasi, quindi, di una forma di concorso di persone già tipizzata, dove il suicidio resta un mero fatto.2
Proprio in merito a ciò, la Pubblica Accusa, nella propria richiesta di archiviazione poi non accolta dal G.i.p., analizzando il titolo XII del codice penale nel quale la norma summenzionata si inserisce, ha sostenuto che “la mancata incriminazione” – nel codice penale –  “dell’atto suicida, almeno nella sua forma tentata, porta […] ad interrogarsi sulle possibilità che il suicidio costituisca, almeno in determinate condizioni, un diritto dell’individuo”.3
Escludendo poi la possibilità di contestare al Cappato una partecipazione morale o psichica, non avendo in alcun modo influito sul processo di formazione della volontà suicida dell’Antoniani, l’Accusa abbraccia una lettura restrittiva, a favore del reo, della norma presuntamente violata.  A parere dell’Accusa, risulta integrata la stessa solo ogni qualvolta l’atto incriminato si ponga in un rapporto di agevolazione strettamente correlato alla fase esecutiva ultima del suicidio, mentre, diversamente, non potrebbe essere oggetto di rimprovero penale una condotta che solo marginalmente lede il bene giuridico protetto, senza tuttavia specificare ulteriormente in che cosa potrebbe consistere quest’ultimo tipo di condotta. Secondo i p.m., quindi, nel caso di specie, non è stata raggiunta la soglia di offensività richiesta dal legislatore. Illecite sarebbero solo le condotte sorrette da motivi egoistici.

C’è di più: il nesso causale tra la condotta materiale del Cappato (consistita nell’aver trasportato l’Antoniani presso l’associazione svizzera) e l’estremo gesto sarebbe stato interrotto dalle opere apprestate dal personale della Dignitas. Pertanto, l’attività incriminata “sarebbe confinata tra gli atti preparatori penalmente irrilevanti” – (risulta essere solo un presupposto non rilevante) – “senza integrare il reato di cui all’art. 580 c.p.”.4
Il punto cruciale delle argomentazioni esposte dalla Pubblica Accusa va ravvisato nella lunga e compiuta trattazione del tema “diritto fine-vita” e nei risvolti di incostituzionalità che sembrerebbero emergere dalla tutela apprestata dal 580 c.p.

Il diritto alla vita, essendo alla base di tutti i diritti fondamentali della persona, risulta essere un valore immanente al nostro ordinamento, anche se non espressamente enunciato dalla Carta costituzionale.  Tale diritto non appare assoluto ma è bilanciabile con altri diritti primari, sia sul piano civilistico che sul piano penale (basti pensare ai casi consentiti di interruzione di una gravidanza).

Questo principio emerge anche dalle pronunce della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ravvisa nell’art. 2 della CEDU il suo fondamento giuridico.

Il diritto alla vita deve fare i conti in maniera speciale con il “principio personalistico” posto alla base della Costituzione, quale diritto di un individuo ad autodeterminarsi in ogni campo, ai fini del pieno sviluppo della propria persona umana. 

In particolare, nell’ambito dell’art. 32 della Cost. (diritto alla salute) il bene vita appare solo parzialmente indisponibile: questo incontra il limite dell’autodeterminazione terapeutica (il cui presupposto indefettibile è il consenso informato), che, nel caso specifico del rifiuto di cure, può anche comportare quella che comunemente viene definita eutanasia passiva, ormai riconosciuta dal nostro ordinamento in presenza di specifici presupposti (recentemente è stata approvata la legge che regola e disciplina l’accesso al testamento biologico, ma nella giurisprudenza si annoverano  casi  emblematici più risalenti quali, a mero titolo esemplificativo, il caso Englaro o Welby).

E’, dunque, evidente come tale percorso sia strettamente correlato ad un valore preminente, reclamato dalle nostre società moderne, quello del “vivere dignitosamente”.  Secondo tutto quanto premesso, proseguono i p.m., “le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita, quando siano connesse a situazioni, oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e indegna dal malato stesso” e, pertanto, è altamente auspicabile in quest’ambito un intervento legislativo che lo preveda e ne prevenga gli abusi.5 

Alla luce di tale riflessione, l’accusa ritiene, inoltre, sussistente un diritto al suicidio dell’Antoniani, il cui esercizio ha integrato una causa di giustificazione impropria che “trasforma quel fatto illecito non punito in un vero e proprio diritto”, che si estende anche al concorrente (il Cappato).6 
Per quanto concerne le questioni di costituzionalità sollevate, invece, in apposita memoria, la magistratura inquirente ha ravvisato un lungo novero di articoli di fonte superiore che possono dirsi violati dall’art. 580 c.p., nella parte in cui quest’ultima disposizione di legge “incrimina la condotta di partecipazione fisica o materiale al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita, quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita fonte di una lesione del suo diritto alla dignità”.7
Illustrando brevemente, l’art. 580 c.p. risulta in contrasto con l’art. 3 della Costituzione (nonché con l’art. 117 Cost. poiché non rispetta il divieto di discriminazione di fonte sovranazionale, enunciato all’art. 14 della CEDU), giacché realizza una discriminazione tra chi può agevolmente scegliere di rinunciare alle proprie cure andando incontro ad una morte “naturale” e chi non può fare a meno dell’azione di un soggetto esterno per porre fine alle proprie sofferenze. In tal modo, sarebbero ricompresi tra i soggetti deboli tutelati dalla norma penale, in maniera inopportuna ed ingiustificata, coloro che consapevolmente e necessariamente vogliano e debbano procedere a pratiche eutanasiche tramite un supporto esterno (la cui situazione è, invece, assimilabile a chi può ricorrere allo strumento del rifiuto di trattamenti terapeutici).

Il precetto penale dell’istigazione o aiuto al suicidio si pone in contrasto inoltre con gli artt. 3, 25, c. 2 e 27 cc. 1 e 3 Cost., poiché la norma, “disegnata dal legislatore ordinario in maniera troppo ampia”, collide con il principio di offensività e incrimina situazioni nelle quali non solo non vi è una effettiva offesa al bene giuridico ma nemmeno un pericolo (eccessivamente severa appare al riguardo la cornice edittale della pena somministrata dalla norma); nelle situazioni lamentate, come quella dell’Antoniani, lungi dall’essere soggetti deboli, si chiede il compimento di un atto di piena, lucida, ponderata e consapevole autodeterminazione.8

Abbiamo di fronte, quindi, una disposizione del codice penale di chiara epoca pre-repubblicana, dove l’esistenza di un individuo non può essere sottratta alla forza-lavoro della Patria, che necessita di un adeguamento o perlomeno di una lettura costituzionalmente orientata.

Alla luce di ciò, l’art. 580 c.p. non permette di compiere una piena autorealizzazione del proprio essere umano (chiaro è il contrasto quindi anche con gli artt. 2, 117 Cost. e art. 2 CEDU), non lascia la libertà di scegliere con quali mezzi e in quale momento portare ad un epilogo la propria esistenza (viola quindi la libertà personale e il diritto alla salute, nonché la vita privata e familiare) ed, infine, pone un “obbligo di vivere” a discapito del valore della dignità umana, espressione ricavabile dall’art. 32 c. 2 della Cost. (nella sua formulazione del rifiuto dei trattamenti sanitari) e dall’art. 3 CEDU (con il divieto di trattamenti inumani e degradanti).
Per quanto concerne la difesa dell’imputato, la stessa condivide ampiamente la lunga esposizione effettuata dalla Procura, circoscrivendo l’illegittimità costituzionale ai soli casi di malati terminali o irreversibili. ponendo l’accento in modo particolare sulla discriminazione che, ad opera dell’art. 580 c.p., si viene a creare tra “chi è in condizioni comunque di patologia irreversibile tale da compromettere la dignità della vita, ma non dipende in toto dalle macchine” e “chi può porre fine alla vita con il semplice rifiuto di cure”.9
Di diverso ed opposto avviso è, invece,  il competente Gip di Milano.

In primis, il Giudice asserisce che è ascrivile al Cappato non solo una condotta di partecipazione materiale ma anche una morale in connessione con l’evento della morte dell’Antoniani: “il desiderio di morire, già espresso dal malato, era – in considerazione delle condizioni fisiche dello stesso – privo di effettiva possibilità di attuazione; soltanto grazie all’intervento e al successivo consulto con l’indagato, si è trasformato in una possibilità concreta, cosicché è evidente  che tale decisione si è evoluta e rafforzata”. 10

In secondo luogo, il Gip ritiene di dover dissentire con la lettura restrittiva del precetto penale, reputando che qualsiasi condotta, supportata dalla consapevolezza di agevolare il proposito auto-soppressivo, previa verifica del nesso di causalità, sia idonea ad essere ricompresa nell’art. 580 c.p. (in quanto, come sopra menzionato, norma a fattispecie a forma libera).

Nella trattazione della questione, il magistrato si chiede se sia esigibile ed azionabile un diritto ad una “morte dignitosa”.  Sebbene vi sia, nel nostro ordinamento giuridico, un diritto a lasciarsi morire in forza del combinato disposto degli artt. 13 e 32, c. 2 della Cost., quale naturale evoluzione di una patologia che possa affliggere un soggetto,  la pretesa incontra il limite della lacuna di legge, ostacolo definito insormontabile, essendo prerogativa e scelta del potere legislativo la possibilità di sancire un diritto inedito.

Sul panorama sovranazionale, d’altronde, la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nelle proprie pronunce, ha sempre negato la possibilità di trarre il fondamento di un diritto a morire con l’aiuto esterno nell’art. 2 della CEDU; anzi, viene evidenziato come sia nel pieno potere di ogni Stato decidere di controllare tali fenomeni sociali e che i rischi di abuso degli strumenti apprestati non debbano essere sottostimati.

Affrontando, infine, le questioni di costituzionalità poste, il giudice, nel proprio ruolo di filtro delle questioni da sottoporre alla Corte costituzionale, si spinge sino a decretare la manifesta infondatezza delle problematiche evidenziate. In spirito con quanto sopra esposto, è censurabile la richiesta di rivolgersi alla Corte in presenza di situazioni che impongono pronunce additive, possibili solo quando il legislatore trascuri di “positivizzare un contenuto normativo che gli è imposto a tutela di diritti costituzionalmente garantiti”, ma non “in presenza di pluralità di scelte normative possibili”.11

Sussiste, quindi, un margine di apprezzamento che può essere rimesso solo al potere del Legislatore, il quale è deputato, inoltre, a controllare e disciplinare dettagliatamente i rischi di abuso nei quali si potrebbe incorrere.

Ma, soprattutto, la ricostruzione offerta dai P.M., finisce col creare un’indebita differenziazione tra “vite meritevoli di essere vissute” ed “esistenze meno meritevoli”: “le prime, mai sacrificabili, e protette sempre ed in ogni caso da qualsiasi ingerenza esterna; le seconde, invece, rinunciabili in quanto indecorose, laddove, però, una simile valutazione andrebbe riconosciuta soltanto in presenza di requisiti non particolarmente limpidi e, soprattutto, di difficile accertamento”. 12 

Vi è insomma il pericolo di effettuare una classificazione tra vite considerate di serie a e vite considerate di serie b, creando una disparità inaccettabile in uno stato di diritto che pone alla base dei suoi principi l’uguaglianza.
E’ evidente a questo punto la voragine tra punti di vista essenzialmente opposti, entrambi ancorati a valide argomentazioni in punto di diritto, tra chi si erge a strenuo difensore di diritti inespressi, che cercano di innalzarsi per essere riconosciuti e chi, invece, si fa custode di saldi principi non opinabili dell’attuale assetto costituzionale. 

Dopotutto, il tema di fine-vita è tutt’altro che cristallino e pienamente condiviso. Basti vedere il travagliato iter legislativo della recente legge sul testamento biologico, la quale ha subìto numerosi emendamenti e, a seguito di ciò, un notevole prolungamento dei tempi di approvazione, e sulla quale, comunque, ancora molti parlamentari, in sede di votazione, si sono espressi a sfavore.

Non resta che attendere il prossimo passo di questa vicenda giudiziaria, il cui epilogo può comportare importanti sviluppi per i diritti contemporanei e per tutti coloro che versano in situazioni simili a quella dell’Antoniani. In caso di esito negativo, una volta esaurite tutte le strade interne, è logicamente prevedibile un prosieguo presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1 Decreto che dispone il giudizio immediato a richiesta dell’imputato ex art. 419, c. 5, c.p.p., procedimento penale n. 11095/17 R.G. G.I.P., Tribunale di Milano, imputato Cappato Marco, data 18/09/2017

2 L’art. 580 del codice penale (Istigazione o aiuto al suicidio) recita: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione , è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”

3  Richiesta di archiviazione ex artt. 408 – 411 c.p.p., 125 e 126 D.lv. 271/89, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 02/05/2017, pag. 5

4 Richiesta di archiviazione ex artt. 408 – 411 c.p.p., 125 e 126 D.lv. 271/89, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 02/05/2017, pag. 8

5 Richiesta di archiviazione ex artt. 408 – 411 c.p.p., 125 e 126 D.lv. 271/89, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 02/05/2017, pag. 14

6 Richiesta di archiviazione ex artt. 408 – 411 c.p.p., 125 e 126 D.lv. 271/89, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 02/05/2017, pag. 15

7 Memoria del P.M. e questione di legittimità costituzionale, Procura della Repubblica presso il presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 04/07/2017, pagg. 2-3

8 Memoria del P.M. e questione di legittimità costituzionale, Procura della Repubblica presso il presso il Tribunale di Milano, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco, data 04/07/2017, pag. 6

9 Memoria difensiva nell’interesse dell’indagato dottor Marco Cappato difeso dagli avvocati Massimo Rossi del foro di Milano e Francesco di Paola del foro di Lagonegro, Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, procedimento penale n. 9609/17 R.G.N.R., indagato Cappato Marco

10 Ordinanza per la formulazione dell’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta ex art. 409 c.p.p., Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice delle indagini preliminari, procedimento penale n. 11095/17 R.G. G.I.P., imputato Cappato Marco, data 10/07/2017, pag. 7

11 Ordinanza per la formulazione dell’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta ex art. 409 c.p.p., Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice delle indagini preliminari, procedimento penale n. 11095/17 R.G. G.I.P., imputato Cappato Marco, data 10/07/2017, pag. 27

12 Ordinanza per la formulazione dell’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta ex art. 409 c.p.p., Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice delle indagini preliminari, procedimento penale n. 11095/17 R.G. G.I.P., imputato Cappato Marco, data 10/07/2017, pag. 28

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