Rock & Diritto: l’anima fragile di Jeff Buckley

 Il 29 maggio 1997 ci laciava Jeff Buckley. Negli anni ’90 l’album “Grace”  lo consacra uno dei miti di quel tempo e non solo. David Bowie in un’intervista dirà che Grace è uno dei dischi che avrebbe voluto portare con sé in un’isola deserta, Jimmy Page lo definirà il disco preferito del decennio, Bob Dylan definirà Jeff uno dei più grandi compositori del decennio.

Un linea sottile di fragilità e maledizione disegna la breve vita di Jeff Buckley spezzata in modo assurdo e forse oscuro in una sera di maggio del 1997. Jeff nasce ad Orange County in California a fine anni sessanta, la musica gli appartiene sin da piccolo, circondato da una madre pianista e violoncellista e da un padre, Tim Buckley,  considerato uno dei più grandi compositori nel panorama del rock musicale che però si spegne a soli 28 anni a causa di un’overdose. Destino tragico che sembrerà anni dopo ripetersi, seppur in modi differenti, nella storia del figlio Jeff dall’anima fragile ed inquieta, forse quella di figlio che si sente umiliato dall’abbandono del padre che non ha mai potuto conoscere veramente se non attraverso i ricordi degli altri.
Dopo gli esordi musicali a Los Angeles ed il trasferimento a New York, le due città che più fanno parte del cammino personale ed artistico di Jeff,  nel 1993 inizia a lavorare all’album Grace, l’unico album pubblicato in vita,  un lavoro immortale che diverrà una perla rara della musica di tutti i tempi.

L’anno prima della sua morte, dopo un lungo tour che lo  porta a suonare in molti paesi, a diventare un po’ un “cittadino del mondo”, Jeff  è stanco ed appare  sempre di meno sul palcoscenico, vivendo un anno buio che lui stesso motiva come una sorta di ricerca di se stesso, dell’anonimato che ormai gli è quasi impossibile e dell’amore per la musica:

“è stato un momento della mia vita non troppo tempo fa nel quale potevo semplicemente esibirmi in un cafè e fare ciò che mi piaceva fare, suonare musica, imparare esibendomi, esplorare cosa significasse per me, divertirmi mentre irritavo e/o divertivo spettatori che non mi conoscevano. In questa situazione avevo la preziosa e insostituibile lussuria del fallimento, del rischio, della resa. Lavoravo duramente per mettere insieme queste cose, questo lavoro. Mi piaceva e mi mancò quando scomparve. Quello che faccio è recuperare ciò”.

Il cammino di Jeff Buckley finisce tragicamente la sera del 29 maggio 1997. Si trova nel Tennessee (a Memphis) dove ama esibirsi in un piccolo locale del posto. Quella sera Jeff, insieme al suo collaboratore Keith Foti, si stanno recando verso lo studio di registrazione per definire il brano “My sweetheart the drunk” quando Jeff decide di fermarsi e di fare un bagno come altre volte nel Wolf River, un affluente del Mississippi, rimanendo vestito e canticchiando il ritornello della canzone Whole Lotta Love dei Led Zeppelin.
Il quel momento però Jeff incontra la sua fine perché, probabilmente travolto dall’onda creata da un battello di passaggio sul fiume, non emerge più dalle acque.
Subito viene dato l’allarme, ma il corpo di Jeff viene ritrovato soltanto giorni dopo impigliato tra i rami di un albero sotto di un ponte. Sul suo corpo viene disposta l’autopsia che non rileva tracce né di droghe né di alcol ed il caso viene archiviato come un incidente nonostante sin da subito e poi negli anni successivi si siano rincorse voci sul possibile gesto suicida del musicista. Forse ad alimentare queste voci sono proprio le parole delle sue canzoni dove a volte l’acqua e la morte si intrecciano in modo inquietante: “Ecco che viene la mia ora, non ho paura di morire, la mia voce in dissolvenza canta dell’amore” (Grace) ed ancora “Non sono riuscito a svegliarmi dall’incubo che mi ha risucchiato e trascinato giù … era così reale” (So real).

Le acque del Wolf River conservano forse il segreto sulla fine di Jeff  Buckley ma sicuramente sono la sua musica, le sue parole, le sue interpretazioni che conservano la sua anima … per ricordarlo scelgo la sua interpretazione del brano Halleluja di Leonard Cohen.

 VALENTINA COPPARONI  

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