L’internet service provider non è responsabile di diffamazione

IL CASO PREVITI VS. WIKIPEDIA

di Avv. Alessia Bartolini

internet-service-providerIl caso nasce dalla citazione in giudizio della Wikimedia Foundation da parte dell’ex ministro Cesare Previti ritenendola corresponsabile per le pubblicazioni di affermazioni inesatte e diffamanti contenute nella pagina a lui dedicata nell’enciclopedia online gestita dall’organizzazione.

Responsabilità, dunque, assimilabile all’omesso controllo sui contenuti, necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione vengano commessi reati, prevista in capo al direttore della stampa periodica ex art. 57 c.p.

Ebbene, non solo la Corte Suprema di Cassazione ha più volte ribadito che tale ipotesi incriminatrice non possa estendersi al direttore del periodico online (Cass. pen., sez. V., 16 luglio 2010, n. 35511), ma ai fini di una più corretta analisi della questione giurisprudenziale è bene conoscere la normativa italiana sulla responsabilità dei fornitori dei servizi online (Provider) e la direttiva europea sul commercio elettronico.

Si tratta del D.Lgs.vo del 9 aprile 2003, n. 70 di “Attuazione  della  direttiva  2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici  dei servizi  della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico” da cui si evince, innanzitutto, che i prestatori dei servizi in rete non sono responsabili degli illeciti commessi dagli utenti tramite i loro servizi mediante la pubblicazione di contenuti sulle loro piattaforme, distinguendo i prestatori di semplice trasporto (mere conduit), i prestatori di servizi di memorizzazione temporanea (caching) e i prestatori di servizi di memorizzazione di informazione (hosting). Provider, dunque, che offrono ai propri utenti servizi che vanno dal semplice accesso a Internet alla possibilità di “ospitare” siti.
Quale che sia la natura, detti prestatori di servizi di rete non hanno «un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o /circostanze che indichino la presenza di attività illecite» come espressamente sancito ex art. 17 D.lgs.vo 70/2003.

Ai sensi dell’art. 16 precedente, tuttavia, è previsto un obbligo di intervento in capo al provider, che abbia avuto una “conoscenza effettiva” dell’illecito, di rimuovere il contenuto e disabilitare l’accesso all’utente. Tale norma vale per gli hosting provider quale è la Wikimedia Foundation che ospita sui suoi server e domini l’enciclopedia libera Wikipedia.

Essendo un fornitore di uno spazio adibito alla pubblicazione e non di contenuti, a conti fatti, Wikimedia risulterebbe oltremodo oberata in caso di un controllo ex ante e di monitoraggio costante su quanto caricato dagli utenti sulla piattaforma enciclopedica, motivo per cui la direttiva europea ha esonerato i provider da un simile obbligo. Ne consegue che l’organizzazione citata in giudizio, non potendo assicurare l’accuratezza delle voci pubblicate su Wikipedia, non può essere ritenuta responsabile per gli illeciti eventualmente commessi da alcune pubblicazioni.
La responsabilità rimane in capo ai singoli utenti che hanno materialmente apportate il contributo, in questo caso, diffamatorio.

Per tale motivo, il Tribunale di Roma con sentenza emessa nel giugno del 2013, confermata recentemente dalla Corte di Appello con sentenza del l9 febbraio 2018, ha rigettato la richiesta dell’Avv. Previti escludendo la responsabilità del fornitore del servizio di hosting e ha ricordato che il contenuto delle voci può essere corretto e modificato da chiunque, compreso lo stesso attore.
Nel secondo grado, i giudici, richiamando la normativa sul ruolo degli Internet service provider, fanno riferimento “alla mancanza di responsabilità per i contenuti di terzi e sul dovere di rimozione derivante esclusivamente da un ordine dell’autorità competente ovvero dalla certezza del contenuto illecito, che, nel caso di diffamazione online, la Corte individua nell’utilizzo di espressioni ‘univocamente lesive” e ribadiscono che “nessun obbligo preventivo di controllo poteva essere imputato a Wikipedia dal momento che l’illecito non risultava da nessun provvedimento della competente autorità e non essendo stata attivata la procedura di modifica prevista dal sito“.

Secondo la Corte, inoltre, “la giurisprudenza è univoca nel riconoscere che mere comunicazioni di parte non siano sufficienti ad ingenerare nel provider quella ‘conoscenza effettiva’ da cui scaturisce un obbligo di intervento; tanto meno, per le ragioni dette, da tali mere comunicazioni di parte avrebbe potuto trarsi prova dell’elemento soggettivo illecito in capo al provider…Non vi è nemmeno prova che i contenuti della biografia dell’Avv. Previti fossero lesivi dell’onore e della reputazione del medesimo con riferimento alla fattispecie del reato di diffamazione, né i contenuti apparivano di per sé ingiuriosi tanto da attivare un obbligo di rimozione da parte dell’hosting provider”.

Al di fuori del caso espressamente esaminato, restano alcune perplessità in ordine alla effettiva tutela della vittima in quanto il mezzo di Internet è una evidente cassa di risonanza della comunicazione offensiva data dalla rapidità e dalla capacità espansiva dei contenuti delle singole piattaforme e dalla circostanza che qualsiasi utente può servirsene (in alcuni casi anche di non agevole identificazione).

Vi è, dunque, un’inevitabile esposizione all’offesa, che in certi casi può anche portare conseguenze peggiori dell’oltraggio all’onore e un non raggiungibile ristoro in caso di lesione.

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