La storia di Ancona tra fatti e misfatti

INTRIGA IL LIBRO DI ALESSANDRO BADALONI

xfed-copertina-librostoriaanconaANCONA – di Giampaolo Milzi – Gente quieta e pacifica, gli anconitani. Indefessi lavoratori dediti ai loro affari legati al mare. Bonaccioni tutta casa e chiesa, fedelissimi guelfi e quindi devoti al Papa di turno, anche di quello che li angustiava, e perciò in astio coi ghibellini della fazione imperiale. Tale quadro disegnato da una certa “vulgata” viene rovesciato e stravolto a tinte foschissine da Alessandro Badaloni, anconitano anche lui e appassionato dell’ultra bimillenario passato del capoluogo marchigiano, nel suo breve saggio “Fatti, misfatti e strane presenze. Ombre e misteri nella storia di Ancona”, fresco di stampa per “Affinità Elettive”. Il titolo è già un proclama: circa 90 pagine, i cui nefasti eventi sono ambientati per lo più nei secoli qui davvero bui del Medioevo; che dopo la lettura, a guardarle in controluce, sembrano stillar sangue. Storie di tradimenti e vendette, gogne e persecuzioni, giustizie sommarie ed efferate iniquità, con coltelli, scuri e roghi artefici di sevizie, omicidi e stragi, perpetrati il più delle volte in occasione di guerre e guerricciole, o epurazioni a ridosso e all’interno delle vecchie mura che cingevano la città scendendo dal colle Cappuccini per risalire su a Capodimonte. Fatti anche di coraggio talvolta alimentato da misticismo, e soprattutto misfatti che non fanno sconti a nessuno, né tra i carnefici né tra le vittime: da popolani a rampolli di blasonati casati, da religiosi cristiani o laici ebrei ad incalliti bestemmiatori, da condottieri e cavalieri militari di professione a plebaglia improvvisatasi guerriera; donne, uomini, anziani, bambini… si salvi chi può. Nefandezze cruente le cui ombre splatter, pur presenti nei resoconti di illustri storici (come Oddo di Biasio, Antonio Leoni, Agostino Peruzzi, Carisio Ciavarini, tanto per citarne alcuni di quelli riportati nella bibliografia), trovano scarse fondamenta documentali. E quindi, nell’intento simpaticamente provocatorio dell’autore, si allungano fino al presente. Ombre nere capaci di far da sfondo a improvvise, inattese, metafisiche, rievocative folate di gelido vento, tali ancora oggi da far rizzare peli e capelli a chi, particolarmente sensibile, si trovi a passare, magari dopo il calar della sera, nei luoghi macchiati dagli orrori che furono e quindi “spiritati”. Già, i luoghi e i toponimi antichi, sconosciuti al neofita di storia locale, tali da alimentare ancor più sconvolgenti e inquietanti fantasie, grazie allo stile aulico e affabulatorio di Badaloni. Ma è pur vero che il Campo della Mostra (piazza Malatesta), la Piazza Grande (del Plebiscito), la Piazza San Nicola (della Repubblica dov’è ora il Teatro delle Muse) per fare tre esempi, furono davvero scenari di pubbliche esecuzioni, di plurimi ammazzamenti col fuoco delle pire, di cadaveriche esposizioni e fosse comuni. Ed è pur vero che nel 1811, quando fu demolito l’altare maggiore della Chiesa del Monastero di Santa Maria Nuova (oggi sede della Soprintendenza, in via Birarelli) fu trovato un teschio con evidenti segni di decapitazione. Lecito ergo supporre che appartenesse alla badessa che alla fine del 1200 osò con dura, quasi fanatica fermezza, imporre l’alt ai Saraceni che avevano messo a ferro e fuoco la città; la pia Francesca perse la testa (letteralmente), mentre le 74 consorelle vennero violentate e trucidate. Falso, invece, che Terrabotto di Rinalduccio Terrabotti, ghibellino fino al midollo, ricco e famoso mercante anconitano, agli inizi del XIV secolo facesse parte della setta – davvero esistita – dei Fraticelli. I quali pare adorassero il “dio zozzo” e si riunissero nella grotta del palazzo del Terrabotto, in piazza San Francesco, contigua al Vicolo della Storta, per compiere riti orgiastici in onore di Venere. Il cardinale d’Albornoz fece demolire l’empio edifico, ma il fuoriuscito Terrabotto fu assolto proprio da un inquisitore e poi riabilitato. Realistico, infine, che nel 1433 circa 200 esploratori inviati in città dall’invasore Francesco Sforza del Ducato di Milano vennero catturati dagli anconitani, i quali li chiusero in un sacco con una pietra al collo e li gettarono in mare, sbeffeggiando poi gli Sforzeschi col motto “Li Anconitani danno da bevere et non da mangiare”. Un volumetto intrigante, questo di Badaloni, che si presta ad essere ingurgitato velocemente nel ventre mentale – come “l’amarissimo che fa benissimo” di una pubblicità degli anni ’70 -, regalando al lettore un senso di velenoso piacere.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

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