In guerra per amore, la recensione

di Alessandro Faralla (Responsabile Cultura e Spettacoli F&D)

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Ciascuno ha un suo tratto distintivo, qualcosa che lo identifica.
Pierfrancesco Diliberto ne ha uno inconfondibile. Con
In Guerra per Amore il regista siciliano ripropone lo stile e gli elementi narrativi che hanno segnato i suoi lavori televisivi nonché il fortunato esordio cinematografico con La Mafia Uccide Solo d’Estate.
Il secondo lungometraggio di
Pif a tutti gli effetti può essere considerato un prequel del film del 2013: siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, gli alleati stanno per sbarcare in Sicilia, il punto più favorevole per liberare l’isola e l’Italia dalla dittatura fascista.
La forma del C’era una Volta è quella che Pif più predilige per raccontare momenti oscuri della storia italiana, anche In Guerra per Amore ci sono un Arturo e una Flora, qui l’amore è fin dal principio reciproco ma ostacolato dal matrimonio combinato di lei con un boss mafioso newyorkese.

L’unica possibilità per impedire questa relazione è recarsi in Sicilia per chiedere al padre di Flora la mano della figlia: per farlo il giovane emigrato siciliano si arruolerà nell’esercito americano che si appresta a sbarcare in un piccolo paesino della Sicilia.
Arturo ha un unico scopo e non si cura del resto: quasi non si accorge che la pacifica invasione è stata agevolata da un accordo con esponenti mafiosi del luogo, atteggiamento caratteristico dell’italiano incosciente. La voce narrante di Pif non risulta eccessivamente invadente, la rappresentazione degli individui criminali meno burlesca rispetto alla Mafia Uccide solo d’Estate, la narrazione però è pigra, non accompagnata da una storia ben assemblata nel tono, nel ritmo, con una trama in cui il territorio siciliano è un personaggio dormiente, che non restituisce con spontaneità l’essenza e le dinamiche della comunità.

Quel che riesce meglio a Pif e al film è la leggerezza, la volontà di ricreare poesia anche laddove vi è drammaticità; tale approccio solo in parte è un punto a favore perché stona con una seconda parte e un finale dal forte contenuto civile e politico messi in scena come monito imperativo.

Va bene sentirsi a proprio agio con una forma di racconto, Pif è solo alla seconda regia e il margine di evoluzione è ampio: l’importante è che ci sia tale consapevolezza, altrimenti anche una storia poco conosciuta come il compromesso tra Americani e mafiosi che di fatto ha favorito il riemergere e il consolidamento del metodo mafioso in Sicilia può perdere l’occasione di avere una sua voce.
Ecco, Pif può fare benissimo a meno di basare i suoi soggetti su personaggi
scemotti che a lungo andare risultano sgradevoli e fasulli, storie d’amore non necessarie, specie se hanno l’inconsistenza del carattere interpretato da Miriam Leone.

 

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