I commenti choc su Facebook degli agenti penitenziari su un detenuto rumeno suicida

LA POLIZIA PENITENZIARIA TRA VERGOGNA E BURNOUT

Di Barbara Fuggiano (praticante avvocato)

Unknown“Uno in meno”, “Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone”, “E per la conta uno de meno”, “Lui è morto, ma scommettiamo che il giudice metterà sotto inchiesta chi era di servizio? Ricordatevi che loro sono cattivi nei nostri confronti”, “Sicuramente i nostri colleghi saranno indagati! E vuoi mettere che la vita di un delinquente non debba essere tutelata e chi lavora come noi in mezzo alla feccia umana non debba subire la giusta punizione!!”, “Speriamo abbia sofferto”: sono alcuni dei commenti al suicidio di un detenuto rumeno nel carcere milanese di Opera comparsi sulla pagina Facebook di una delle organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria meno rappresentative (l’Alsippe) e rimossi nel giro di poche ore.

Si chiamava Ioan Gabriel Barbuta, aveva 39 anni ed era detenuto nel carcere di Opera per espiare una condanna all’ergastolo inflitta dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia per aver ucciso, poco meno di due anni fa, un vicino durante una rapina. E’ il sesto detenuto a suicidarsi (stavolta per impiccagione) dall’inizio dell’anno. E siamo solo a Febbraio.

Non so se faccia raggelare il sangue di più il fatto che si torni a parlare del tragico problema dei suicidi in carcere solo in conseguenza di questi ignobili commenti oppure il fatto che, anche in questa occasione, i riflettori siano puntati più sugli agenti che sulla situazione carceraria. Troppo banale e inconsistente è credere che sia giusto così perché tra i poliziotti penitenziari e i detenuti c’è una grande differenza, dato che i primi sono in carcere per lavoro mentre i secondi hanno delinquito e “devono pagare”. Gli individui sono tali in ogni caso e a prescindere dal personale vissuto e dalla posizione giuridica, la morte di un detenuto è pur sempre la morte di una persona e, anche se molti storceranno il naso, perfino la morte di un mafioso è pur sempre la morte di una persona. Non ci sono morti di “serie A” e morti di “serie B”.

Leggere quei commenti, che forse meriterebbero di cadere nell’oblio, fa rabbia. E fa rabbia per diversi motivi. Trasudano mancanza di rispetto per la storia (e la fine) di un uomo, disonore per la categoria, dubbi sul percorso selettivo e formativo della polizia penitenziaria, razzismo.

E quando c’è razzismo non può che farsi sentire anche la Lega. Gianluca Buonanno, riferendosi al detenuto rumeno, così esordisce, durante un’intervista su Radio 24: “Non è che dico <uno di meno>, non sono stato io a dirgli di farlo, però è uno di quei delinquenti che non hanno nessun limite e che, come tanti altri di quella stirpe lì, uccidono, picchiano, massacrano per quattro soldi. Abbiamo risparmiato tanti soldi, il fatto che sia morto è stata una sua scelta, a me non me ne può fregar di meno perché quella gente lì deve rimanere in galera. Io capisco quegli agenti penitenziari”. Già più umano è stato Matteo Salvini con il suo “conoscendo quali sono le condizioni in cui lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria non dico che giustifico ma capisco”.

Ma a differenza di questi esponenti politici, che pubblicamente ripetono gli ignobili commenti di Facebook condividendoli, gli agenti di polizia penitenziaria subiranno conseguenze per questa amara vicenda. Il capo del D.A.P. Santi Consolo, infatti, ha firmato 16 provvedimenti di sospensione in via cautelare e avviato altrettanti procedimenti disciplinari. In verità, non tutti i commenti vergognosi pubblicati sul social network sono stati postati da agenti penitenziari, alcuni, infatti, portano la firma di rappresentati sindacali.

Il D.A.P. ha comunque trasmesso un rapporto corposo alla magistratura per i provvedimenti del caso, annunciando l’intenzione di volersi costituire parte civile, nell’eventuale processo, per danno all’immagine. E un danno all’immagine senza dubbio c’è, dato che Facebook è da considerarsi “un luogo aperto al pubblico” (Cassazione 37596/2014). Tant’è che sin da subito diverse organizzazioni sindacali (Sappe, Osapp, Fp-Cgil) sono intervenute per invitare “a punire i commenti vergognosi” e “a non confonderli con lo spirito del resto del corpo” perché “esultare per la morte di un detenuto è cosa ignobile e vergognosa” ma si è trattato di “commenti isolati in un sito marginale”.

Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, colpisce nel segno quando afferma che “se è vero che si tratta di agenti penitenziari questi hanno contravvenuto a un dovere di lealtà e legalità, tradendo la loro missione e il loro impegno istituzionale” e, pertanto, vanno sanzionati e allontanati dal D.A.P., ma quello che serve è “un triplo cambio di paradigma: va rafforzata una formazione culturale di tipo umanista; va gratificato socialmente e retributivamente il personale di polizia; va premiato quel personale che assicura, assumendosene la responsabilità, il ruolo di garante della legalità e della qualità della vita in sezione”.

Il cambiamento auspicato da Gonnella e quel “li capisco” pronunciato da molti in riferimento agli agenti che si sono scatenati su Facebook rispondono alla presa di coscienza della situazione del corpo di polizia penitenziaria, della quale questa vicenda rappresenta solo la punta dell’iceberg.

Per quanto nel corso degli anni i metodi di sorveglianza si siano evoluti verso una responsabilizzazione del detenuto da osservare (in luogo di un suo controllo “a vista” ad ogni passo), le difficoltà degli agenti sono fin troppo sottovalutate. Si tratta di uomini chiamati a rinchiudere, costringere e punire un proprio simile, a rimanerne a stretto e costante contatto, a viverne i disagi, a rimanere “detenuti” con i detenuti stessi. Quella giusta commistione tra la dovuta durezza, finalizzata a mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti, e la naturale sensibilità, finalizzata al percorso rieducativo e alla volontà di alleviare le sofferenze intrinseche alla restrizione della libertà, non è facile da individuare e, soprattutto, non è da tutti. Gli agenti sono, per i detenuti, il mezzo di comunicazione con il direttore, con il magistrato, con le istituzioni e, spesso, con il mondo esterno; il sovraffollamento e la carenza di personale non fanno che peggiorare il carico di lavoro e di pressione alla quale i poliziotti penitenziari sono sottoposti.

In questo senso, non può stupire il fatto che si parli di sindrome da burnout in relazione agli agenti. Il burnout è tipico delle professioni sociosanitarie implicanti un particolare rapporto interpersonale con un’utenza bisognosa di aiuto, in riferimento ad un soggetto che, dopo un lavoro duro, esaurisce le proprie energie e non percepisce come possibile il raggiungimento di una meta designata, di un obiettivo. La stressante condizione lavorativa è uno dei fattori che, in sinergia con altri, comporta uno scompenso personale in relazione alle prospettive di vita, agli obiettivi da raggiungere e alle risorse che l’operatore ritiene di possedere, scompenso che inevitabilmente apre la strada ad uno stress emotivo cronico. Tant’è che se i suicidi dei detenuti sono un fenomeno rilevante e particolarmente indicativo dell’emergenza nella quale versano gli istituti di pena italiani, non può non dirsi altrettanto per i non meno frequenti suicidi di operatori penitenziari.

I commenti degli agenti vanno certamente condannati e assolutamente non sono né comprensibili né condivisibili; tuttavia sono indice di un problema strutturale, da non sottovalutare. Mi permetto di riportare le parole del vicepresidente del D.A.P., Luigi Pagano: “c’è una cosa che mi fa particolarmente male di tutta questa storia, il ricordo di tutte le volte in cui ho visto colleghi correre per provare a salvare detenuti con i polsi tagliati, o magari con il collo in qualche cappio. Ne hanno salvati tanti e li ho visti piangere quando non ce la facevano. Quei commenti sono un pugno alle nostre divise, al nostro impegno, al nostro lavoro”. 

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