False partite IVA: il 2015 porta con sé controlli rigidi

RAPPORTI DI LAVORO (S)MASCHERATI DA LIBERA PROFESSIONE

di Dott.ssa Anna Maria Marini (Dottore commercialista e revisore contabile in Ancona)

imagesE’ ormai noto a tutti che con la legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero) sono state introdotte, tra le altre cose, nuove disposizioni in materia di controlli da effettuare sulle partite Iva “fasulle”, cioè su quei rapporti di lavoro mascherati da collaborazione resa in regime di libera professione, che in realtà celano condizioni riconducibili ad un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa o addirittura all’ambito del rapporto di lavoro subordinato.

L’obiettivo della norma è, evidentemente, quello di contrastare l’uso distorsivo che spesso i committenti (o datori di lavoro) hanno fatto e continuano a fare della partita Iva, quale strumento per acquisire prestazioni lavorative ovviando ai più onerosi contratti di co.co.pro o di lavoro dipendente.

Con il 2015 entra a pieno regime quanto previsto dal novellato art. 69-bis del D.Lgs 276/2003, essendo scaduti con il 31.12.2014 i due anni pieni e consecutivi necessari per consentire ai verificatori di controllare la “genuinità” o meno del rapporto di lavoro autonomo intrapreso in condizioni di mono-committenza.

Cerchiamo allora di capire a chi, come e quando si applicano le nuove disposizioni e le conseguenze della loro applicazione, il tutto alla luce delle specifiche introdotte con il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 20 dicembre 2012 e dei chiarimenti forniti dallo stesso Ministero con circolare n. 32/2012.

Destinatari della disposizione in commento sono i soggetti la cui prestazione sia riconducibile al contratto di prestazione d’opera ex art. 2222 c.c., quindi coloro che intraprendono l’esercizio di un impresa, arte o professione e che si obbligano «a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente».

L’art. 60-bis del D.Lgs. 276/2003 prevede che, salvo prova contraria fornita dal committente (inversione dell’onere della prova), la prestazione resa da persona titolare di partita iva sia considerata espletata nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa al verificarsi di almeno due dei seguenti presupposti:

  1. la collaborazione con il medesimo committente abbia una durata complessiva superiore ad otto mesi annui per due consecutivi;

  2. il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro di imputazione di interessi, costituisca più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi;

  3. il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.

Quanto alla durata della collaborazione di cui al punto 1., la circolare del Ministero del Lavoro sopra richiamata ha chiarito che il periodo in questione deve individuarsi nell’ambito di ciascun anno civile (quindi ad oggi la fattispecie si concretizza con riferimento al biennio 2013 – 2014) e che gli “8 mesi annui” si concretizzano quando la collaborazione in ciascun anno abbia avuto una durata almeno pari a 241 giorni anche non continuativi.

Al fine di tale accertamento i verificatori prenderanno in considerazione i periodi di attività desumibili da documenti, di natura contabile o extra-contabile (ad esempio lettere di incarico e fatture), dai quali si possa trarre informazioni in merito alla durata dell’attività svolta, e/o i periodi di attività ricostruibili sulla base di testimonianze assunte, in sede di verifica ispettiva, da altri lavoratori o da terzi.

Relativamente al corrispettivo derivante dalla collaborazione, affinché la stessa possa essere considerata genuina, l’ammontare dei compensi fatturati al medesimo committente non deve eccedere l’80% di quanto ricavato nell’arco di due anni consecutivi.

Nel calcolo del dato reddituale vanno presi in considerazione i corrispettivi comunque fatturati, indipendentemente dall’effettivo incasso delle somme pattuite, nell’arco di “due anni solari” e quindi di due periodi di 365 giorni ciascuno. Resta inteso, come chiarito dalla circolare n.32, che qualora gli ispettori in sede di verifica intendano far valere ai fini della presunzione, il presupposto di cui al punto 1 e 2, anche per il dato reddituale si farà riferimento ai due anni “civili” e non a quelli “solari”.

Ovviamente, per non snautare la finalità della norma, non si tiene conto dei compensi erogati dal committente nei confronti del soggetto “verificato” a titolo di prestazione di lavoro subordinato e di lavoro accessorio o di altra natura.

Onde evitare un artificioso frazionamento della “fatturazione”, diretto ad aggirare la presunzione in argomento, la norma considera verificato il presupposto reddituale anche quando i corrispettivi vengano erogati al prestatore da “soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi”. Vale la pena ricordare quanto specificato dalla circolare ministeriale in merito.

In particolare, richiamando a titolo esemplificativo i principi enunciati nella sentenza n.25763, del 9 dicembre 2009, della Corte di Cassazione, il Ministero ritiene che il “centro d’imputazione di interesse” ricorra quando vi sia una simulazione o una preordinazione, in frode alla legge, del frazionamento di un’unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga adeguatamente accertato attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che devono presentare i seguenti requisiti:

  1. unicità della struttura organizzativa;

  2. integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune;

  3. coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;

  4. utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari di distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

E’ chiaro che, in mancanza di elementi oggettivi per definire concretamente quando tali elementi sussistono, la valutazione nel caso concreto è di fatto demandata alla valutazione del giudice di merito ed eventualmente di legittimità.

Per quanto riguarda infine il terzo presupposto, ovvero la possibilità per il prestatore di usufruire di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente, tale condizione precisa il Ministero, ricorre a prescindere dal fatto che il prestatore abbia dei limiti di utilizzo dell’attrezzatura del committente e che la postazione stessa sia o meno di suo uso esclusivo.

A prescindere dal ricorrere dei presupposti di cui ai punti 1, 2 e 3, per disposizione di legge la presunzione circa la riconducibilità del rapporto di lavoro alla co.co.pro., non opera quando:

  • la prestazione resa dal collaboratore sia connotata da un elevato grado di competenze teoriche o da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze;

  • il soggetto che esegue la prestazione sia titolare di un reddito di lavoro autonomo annuo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali (limite che viene aggiornato annualmente);

  • la prestazione lavorativa viene svolta nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali qualificati e detta specifici requisiti e condizioni. Il Decreto Ministeriale del 20 dicembre 2012 ha individuato in via non esaustiva l’elenco di tali attività ed ha altresì specificato che la mera iscrizione ai fini di pubblicità dichiarativa alla camera di commercio non è da sola sufficiente ad escludere l’applicazione della presunzione in commento.

Relativamente alla prima delle situazioni escluse, molto brevemente, l’elevata qualifica ricorre quando il prestatore ha acquisito titoli specialistici o un esperienza pratica di almeno 10 anni, entrambi direttamente pertinenti all’attività che viene svolta come collaboratore (inutile avere la laurea in ingegneria se l’attività di collaborazione ha ad oggetto una prestazione di carattere amministrativo-contabile).

Cosa accade se ricorrono due dei presupposti citati dall’art. 69-bis del D.Lgs. 276/2003? Ebbene, se il committente non dimostra che il rapporto di lavoro è autenticamente qualificabile come prestazione resa in regime di libera professione, il rapporto di lavoro stesso viene ricondotto fin dalla sua origine (ovvero emissione della prima fattura):

  • in primis alla collaborazione coordinata e continuativa, in relazione alla quale oltre agli altri presupposti di legge va individuata l’esistenza di un progetto. Se ciò avviene, trovano applicazione specularmente tutte le altre disposizioni, in materia di sospensione del rapporto in caso di malattia e infortunio e di proroga in caso di gravidanza e comporta altresì l’applicazione di una particolare disciplina contributiva, per cui gli oneri derivanti dall’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’Inps, ai sensi della Legge 335/1995, sono a carico per due terzi del committente e per un terzo del collaboratore, con diritto di rivalsa di quest’ultimo nei confronti del committente;

  • nei casi più gravi, ovvero quando non sia configurabile l’esistenza di un progetto o non ricorrano gli altri requisiti della co.co.pro, il rapporto viene ricondotto, a quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato con le ovvie conseguenze sul piano fiscale e previdenziale.

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