“Beat in rosa” ed emancipazione femminile

NUOVO LIBRO DI STEFANO SPAZZI SUI ‘60

beat-in-rosa-coverjpgANCONA – di Giampaolo Milzi – “Macché ribellione! La nostra era pura e semplice gioia, voglia di scoprire il mondo e la vita”. La voce pimpante e birichina che risuona al telefono è quella di Nara Gavioli, fondatrice nel 1965 a Modena delle Scimmie, quintetto tutto al femminile e dal nome provocatorio tra quelli che segnarono di più la scena italiana del “Beat in rosa”. Al cellulare con lei c’è Stefano Spazi, avvocato anconetano, uno che degli ani ’60 e delle sue espressioni, soprattutto musicali del Bel Paese reduce dal boom economico, s’è preso una cotta cronica. Quegli anni ‘60 che nella seconda metà (dal ’67, ’68 in poi) divennero “Formidabili” (per dirla con Mario Capanna) per il tentativo di portare la “fantasia al potere” e per la profonda ribellione rivoluzionaria socio-politico-culturale in parte mancata. 

Beat in rosa”, sì, già il titolo di questo saggio firmato da Spazzi (edito da “Italic Pequod”) è una notizia. Perché al di là delle icone dell’epoca Patti Pravo e Caterina Caselli (solo per citarne due), i Sessanta – oltre a registrare l’espandersi a macchia di leopardo dalle Alpi alla Sicilia di complessi maschili (così di chiamavano allora la band più o meno rock definite Beat), – videro calcare i palchi delle le proliferanti manifestazioni musicali (Il Cantagiro su tutti), apparire alla RAI TV e addirittura partecipare a tourneè all’estero una serie di gruppi formati esclusivamente da donne, spesso ragazzine. Rosa, ma oscure, in quanto ignote ai più. Dimenticate dalla storia dei decibel e del costume, ma che, come scrive Tony Face Bacciocchi“hanno lasciato una coraggiosa eredità e storie affascinanti, interessanti, incredibili (…) anche se vissero tutte per poco tempo, spesso ostracizzate dai colleghi maschi e dall’ambiente piuttosto misogino e sessista”. Bacciocchi interviene in questo libro col suo contributo “Donne Beat” assieme a Gene Guglielmi (“Le mie donne Beat”), Claudio “Kinks” Scarpa (“Dalla cintura di castità alla minigonna”, Claudio Pescetelli (autore di “Ciglia ribelli”, lavoro a cui deve molto Spazzi). Un libro che l’autore arricchisce con interviste a Mita Medici (“La rivoluzione inconsapevole”), a Rosanna Maiocchi (Una beat a Milano”) e approfondimenti e/o report di dialoghi relativi a Le Stars, le Najadi, le Snobs, Ambra Borelli e le Gatte, Le Pupille, Le Amiche, Le Svitate, Sonia e le Sorelle, The Baby Sitters-The Mini Coopers. “Non posso parlarti per noi di ribellione, però di una certa intraprendenza e tanto coraggio, coraggio di staccarci dal modo comune di vedere la donna sino ad allora, che per noi si estrinsecava nel salire sul palco”, confessa poi la Gavioli delle Scimmie a Spazzi.

Ma ribellione fu, consapevole o inconsapevole. Una ribellione in rosa, inserita nell’esplosione del fenomeno Beat maschile a partire dal 1964, il cui contributo nell’immediato e negli anni a venire si caratterizza come fondamentale in quel link indissolubile che si crea tra nuova musica e nuovo costume. Le Beatnik rosa sono, di fatto, le pioniere della emancipazione femminile in un periodo in cui per la prima volta in Italia l’essere giovani non è più solo una variabile anagrafica, ma diventa una categoria sociale: la musica Beat è il collante – nei concerti dei club che fioriscono in tante città sull’esempio del mitico “Piper” di Roma, in vecchie balere riadattate, nelle piazze – per l’aggregazione, il dialogo, lo scambio di idee partorite con la propria testa tra ragazzi e, cosa ancora più innovativa, ragazze, che iniziano a rapportarsi coi maschi in modo paritario. Anzi, sono spesso loro, anche qui sovvertendo le regole, a prendere l’iniziativa nell’approccio con l’altro sesso non così più forte. Un esempio? Il testo di “Ragazzo triste” di Patty Pravo, la regina del “Piper”, sfacciata, calamitante, iper coinvolgente: “… Ragazzo triste come me, che sogni sempre come me, non c’è nessuno che ti aspetta mai, perché non sanno come sei”. Se si è tristi – tra le nuove gioie di un mondo che sembra finalmente a portata di mano, perché i giovani per la prima volta hanno soldi in tasca per consumare, acquistare dischi in vinile (i 45°), abbigliamento provocante (jeans, cinture di pelle, stivaletti e scarpe a punta lucidi, per le ragazze la rivoluzionaria minigonna di Mary Quant), coniano linguaggi della loro generazione, gestiscono il loro tempo libero sempre più in libertà – se si è tristi lo si è insieme e insieme si sogna e si agisce. “Non più separatismo sessuale ma conoscenza insieme del fenomeno della gioventù: guardarsi negli occhi e fantasticare, darsi un bacio e sentirlo ricambiato, con la stessa forza, lo stesso ardore – scrive Claudio “Kinks” Scarpa – La figura femminile si era spogliata dei panni della passività e per diventare protagonista evincere insieme la battaglia della emancipazione giovanile” . Una emancipazione che, nonostante contraddizioni e ingenuità, crea profondissime, e fortunatamente insabanili crepe nel muro eretto dai “matusa” (gli anziani), dal bigottismo borghese, da una società fondata ancora sulla patria potestà e sull’autoritarismo (a cominciare da quello dei genitori e della scuola), sui divieti, sulle proibizioni rigide, sul maschilismo discriminatorio verso le donne. 

Beatles, Rolling Stones, Equipe ’84, Camaleonti, Rokes sono, assieme a tanti complessi – il punto di riferimento, anche per i testi delle canzoni – conturbante e irresistibile ispiratore anche del “Beat in rosa”.

L’emancipazione sarà più immediata dal punto di vista sessuale, anche e soprattutto per le donne. Amore libero prima del matrimonio, uso dei contraccettivi non saranno più tabù. Poi verranno il Femminismo, il ’68, la politica vera, fatta dai giovani. Merito anche di quel “Beat in rosa”. 

Il saggio di Spazzi si fa leggere tutto d’un fiato, pieno di aneddoti (vedi il tour di tre mesi delle Stars nel Vietnam sconvolto dalla guerra suonando nelle basi americane talvolta attaccate dai Viet Cong) corredato da “Una geografia” con tante citazioni di altri complessi al femminile e di un inserto fotografico che ci restituisce vivide luci musicali in bianco e nero su una società in rapida modernizzazione e a colori, sull’onda del Beat.

(articolo tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

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