Ancona, quelle panetterie preistoriche a Km zero

DELLA CAMPAGNA SCAVI A PORTONOVO, ESITO ECCEZIONALE

- ANCNA – di Giampaolo Milzi -

foto scavi forni 1E’ antichissimo, ma in un certo senso potremmo definirlo la nuova “miniera d’oro del Conero”, il sito di Portonovo costellato di strutture per la cottura del pane e di altri alimenti soprattutto a base di cereali, oltre che di altri reperti risalenti addirittura intorno al 5000 a.C. Dal sito infatti – a valle del maxi-parcheggio vicino alla rotatoria da cui scende la strada per la più bella baia di Ancona – sono emersi forni che furono realizzati e utilizzati dai nostri antenati del primo Neolitico, appartenenti a una popolazione del resto presente in un’ampissima area ricompresa tra il Monte e il mare fin dalla notte dei tempi. Le ultime sorprese? Altri 3 forni, che si aggiungono ai 18 dello stesso tipo già scoperti nel corso della campagna di scavi del biennio 2012-2013. E una grossa fossa probabilmente utilizzata come discarica, con frammenti ceramici, di strumenti in selce ed osso, resti di fauna.

Ancora uno straordinario passo avanti, dunque, quello compiuto dall’ennesima fase dell’attività archeologica attuata dal 15 agosto al 10 ottobre scorsi dalla equipe di esperti dell’Università La Sapienza di Roma, guidata dalla prof.ssa Cecilia Conati Barbaro, del Dipartimento Scienze dell’Antichità, e dalla collega Alessandra Manfredini. Un progresso straordinario quanto l’entità e la rilevanza di livello europeo della scoperta. Perché le complessive 21 “vetero-panetterie”, tra le prime in assoluto create dall’uomo, risultano quasi uniche per entità di concentrazione in Italia e in tutta la fascia geografica del Mediterraneo. I forni, con pareti a volta a forma di cupola fortemente schiacciata, sono rivestiti di argilla cotta. Hanno un diametro variabile da 1 metro e 80 a 2 metri, l’altezza al centro è fra i 40 e i 50 cm, l’imboccatura raggiunge gli 80 cm di larghezza. Erano alimentati a legna e la temperatura raggiunta non superava i 500°. Nei pressi degli ultimi 3 portati alla luce sono stati rinvenuti ingenti quantità di frammenti di ceramica, alcuni decorati, riconducibili a ciotole, scodelle, vasi a collo, olle. E pezzetti di manufatti in pietra, soprattutto di selce scheggiata, ben lavorati in modo da assumere la forma di lame e lamelle che potevano essere inserite in manici di legno e usate come strumenti da taglio. Numerosi anche i manufatti in calcare e arenaria non scheggiata, come macine e pastelle, e residui di carossidi di cereali (grano e graminacee) carbonizzati. Ciò a riprova di una variegata attività di cottura. E, si ipotizza, di essiccazione di carne, pesce e vegetali, di tosatura dei cereali, di trattamento termico della selce. Frammenti di ceramica e pietra come quelli citati erano stati individuati anche due e tre anni fa, quando gli “Indiana Jones” della Sapienza avevano riportato alla luce anche resti umani e di animali. Ai nuovi ritrovamenti dell’estate scorsa si è arrivati allargando via via la fascia d’operazione, oltre quella originaria di circa 1500 metri quadri. Al cui cuore, costituito dalla località Fosso della Fontanaccia, si giunge imboccando in fondo al maxiparcheggio un sentiero in pendenza che porta fino a un pianoro.

Tutti questi ritrovamenti sono molto significativi – spiega la Conati Barbaro – Rappresentano l’importante salto tecnico-culturale delle prime comunità di agricoltori e allevatori. Non più quindi solo cacciatori-raccoglitori. Uomini in grado di produrre le loro basi alimentari e di addomesticare gli animali. Che con tutta probabilità vivevano in piccole comunità da quelle parti”.

(tratto da Urlo – mensile di resistenza giovanile)

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